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LE RAGIONI DELLA FEDE E L’IRRAZIONALITÀ DELL’ATEISMO









di Filippo Giorgianni

(prima parte)


(La seconda e la terza parte di questo saggio saranno pubblicate rispettivamente il 25 e 30 settembre)


Nei media più diffusi e nel pensiero degli “intellettuali” più conosciuti è facilmente riscontrabile un’identificazione pressoché univoca tra fede e sentimento, nonché tra incredulità e razionalità. Il messaggio, che viene instillato presso le masse ad ogni momento utile, è quello secondo cui la fede, mero sentimento privo di appigli razionali, sarebbe un credere insensato, una cecità da creduloni, mentre l’ateismo, l’incredulità, sarebbe la posizione più razionale tra quelle possibili. Poiché, nonostante questa propagandistica induca più o meno velatamente a pensare il contrario, il credente deve saper fare uso della propria ragione e l’onestà intellettuale deve portare allora ogni uomo di fede a interrogarsi, chiedendosi se veramente la propria fede sia una mera credulità oppure se la questione sia posta male o addirittura sia ribaltata dai non credenti rispetto alla realtà di fatto. È dunque questo il quesito cui si deve tentare di rispondere.

1.1 Il problema della trascendenza

In estrema sintesi, si può dire che, di fronte al problema dell’esistenza di una realtà al di là del sensibile, dell’immanente, di fronte cioè al problema dell’esistenza del trascendente sono possibili tre posizioni: la fede, l’incredulità, la mancanza di una posizione netta (agnosticismo). Si tratta di comprendere quale fondamento abbiano queste tre posizioni.

In effetti il problema della trascendenza sarebbe risolvibile solo se fosse possibile arrivare con certezza incontrovertibile (ad esempio, scientifica) alla dimostrazione della sua esistenza o della sua inesistenza. In altri termini, al “problema Dio” si potrebbe dare una risposta certa, sicura, incontestabile, solo qualora si potesse dimostrare con evidenza assoluta la Sua esistenza o la Sua inesistenza. Tuttavia, se ciò che è sensibile, l’immanente, cioè tutto quanto l’uomo percepisce con i propri sensi, è passibile di una ricerca scientifica, che può dare risposte sicure, incontrovertibili, così non avviene per il trascendente. È infatti possibile dimostrare la presenza di un bicchiere davanti a un soggetto, perché il bicchiere si può cogliere con i sensi: basta toccarlo o guardarlo, per averne un’immediata percezione e quindi una sicura dimostrazione della sua esistenza. La scienza (naturale, la “fisica”) è ciò che studia questo dato percettibile, questa realtà sensibile tramite il suo metodo. Così non è invece per il trascendente che, essendo, per definizione, ciò che “trascende”[1] il sensibile, cioè quel che va “al di là” del sensibile, non può essere colto con i sensi e dimostrato in maniera immediata e certa e non può essere sottoposto al metodo della scienza che è il metodo sperimentale. Per avere una certezza in materia trascendente, cioè per avere una sicurezza in ciò che è infinito, che trascende il finito, il sensibile, sarebbe necessaria una ricerca infinita: l’uomo per dire “so che certamente Dio non esiste” (o “so che esiste”), dovrebbe compiere un’indagine infinita[2], dovrebbe potere indagare con la propria ragione ciò che è trascendente, dovrebbe essere capace di percepire ciò che va al di là della materia, del dato sensibile, e poterlo indagare, studiare, analizzare, e farlo per di più in maniera completa. Ma è evidente che ciò sia impossibile: l’uomo, essere finito, non può elevarsi a tale ricerca infinita e giungere a certezze scientifiche in materia trascendente. Di fronte al “problema Dio”, l’uomo non ha certezze scientifiche: in termini di certezza, egli non ha che due opzioni, perfettamente equivalenti: da un lato v’è la possibilità che Dio esista, e dall’altro v’è la possibilità che Dio non esista. Ma, nell’uno e nell’altro caso, non vi può essere certezza scientifica, verificabile tramite esperimenti: in termini di certezza scientifica non è possibile dimostrare l’esistenza di Dio, né la Sua inesistenza, dunque vi sono pari possibilità che Dio esista o che Dio non esista. Ora, già qui si può vedere come sia stolto o tendenzioso l’atteggiamento di certi scienziati o intellettuali scientisti che, pur non azzardandosi minimamente a dire (sarebbe folle chiaramente) che la scienza può dimostrare la non esistenza di Dio, lasciano credere all’opinione pubblica che Dio sia un tema trattabile scientificamente e che per uno scienziato credere in Dio sia irrazionale e quasi antiscientifico. È questa la posizione del rozzo Dawkins che in un’intervista a un altro ateologo, pur concedendo che l’inesistenza di Dio non è impossibile, aggiunge poi incomprensibilmente che Dio è un’ipotesi formulabile scientificamente (e quindi confutabile), un’ipotesi per di più scientificamente improbabile e che uno scienziato non può essere credente, a meno di non cadere in (presunti) strani ossimori, che porterebbero lo scienziato ad avere una mente divisa in due parti non comunicanti[3]. In realtà, in base al proprio metro di giudizio, che è quello scientifico che si occupa di immanenza, lo scienziato nulla potrebbe (e, di fatto, nulla deve) dire in più sul dilemma trascendente rispetto ad altri uomini, perché si ritrova semplicemente di fronte a un bivio che porta a strade scientificamente equivalenti, assolutamente intercambiabili. In base alla pura sicurezza scientifica, lo scienziato può essere credente o non credente, senza che l’una scelta sia più razionale dell’altra. E qualunque scienziato che cerchi di far intendere il contrario è guidato da semplice malafede propagandistica oppure da disarmante ignoranza “umanistica” che abbisogna di adeguati studi di filosofia della scienza, non comprendendo egli evidentemente i limiti del metodo scientifico che dovrebbe utilizzare. Lo scienziato, che pretenda, su basi scientifiche, di dimostrare l’inesistenza – o l’esistenza (ma, al giorno d’oggi, è questa un’ipotesi peregrina in termini statistici) – di Dio, non è uno scienziato serio, perché travalica il proprio metodo e le proprie competenze. Uno scienziato che parli del “problema Dio” non fa scienza, bensì metafisica: travalica abusivamente il confine della propria materia di competenza e si occupa di qualcosa di cui sono competenti i filosofi e i teologi, non gli scienziati[4].

Ma, andando oltre e ferma restando questa parità in termini di certezza scientifica, v’è da chiedersi allora: la posizione dei credenti e quella dei non credenti è equivalente? Oppure gli uni o gli altri hanno ragioni in più da addurre a favore della propria posizione?

1.2 La fede

Per poter rispondere a queste domande, è necessario fare un passo indietro e chiedersi cosa sia la fede e se essa sia, come spesso si crede, un sentimento oppure no. Che la fede sia un sentimento è convinzione diffusa che origina già durante la crisi del medioevo con Ockham, ma che viene ripresa prepotentemente da Lutero e poi, a partire da quest’ultimo, da tutto il pensiero moderno egemone. L’occamismo e il luteranesimo credono che la fede non abbia alcun sostegno nella ragione e si riduca a un qualcosa da essa separato[5]. Ma è proprio così? Prima di tutto, occorrerebbe sottolineare in premessa come, di per sé, un sentimento non sia necessariamente irrazionale. Amare od odiare una persona sono atteggiamenti che non si basano soltanto su processi meramente istintivi, su scelte dettate dall’immediata simpatia o antipatia; tanto più che, conoscendo meglio una persona, si può cambiare atteggiamento e ciò che si prova nei suoi confronti. In realtà si ama e si odia anche per delle motivazioni. Un soggetto odia, per esempio, generalmente chi commette un torto ripetuto nei suoi confronti: c’è una motivazione di fondo (per quanto distorta) in quell’odio – ma al di là della mera enunciazione esemplificativa, il discorso, per quanto riguarda le passioni, sarebbe più complesso e andrebbe meglio inquadrato, ché le passioni devono esser sottomesse alla ragione e al loro fine, il bene[6] –.

Ma, detto ciò, è da smentire soprattutto che la ragione non abbia nulla da dire alla fede e che quest’ultima sia effettivamente un sentimento. La fede non è sentimento ma è proprio un moto della ragione. È bene riflettere su cosa sia la fede in generale. La fede si sostanzia in un credere, e il credere è una convinzione. Ma è poi vero che credere sia irrazionale? Ponendo mente a un banale esempio, si comprenderà che così non è. Si faccia l’ipotesi che un soggetto a, muovendosi sulla strada z, parta dal punto x e voglia giungere alla meta y. Questo soggetto compie il tragitto da x a y abitudinariamente. Arrivato a metà del tragitto nel punto t, essendo consapevole che solitamente, all’andatura tenuta in quel momento, impiegherebbe dieci minuti di tempo per giungere al punto finale y, può esclamare “giungerò a destinazione fra dieci minuti”. Questa convinzione è ovviamente razionale, perché si basa su dati di fatto (l’andatura, la tempistica usuale, la strada rimanente), ma in effetti essa non è altro che un credere. Infatti, se è vero che la convinzione si basa su dati razionali, è pur vero che egli non ha comunque certezza incontrovertibile alcuna di giungere entro dieci minuti al punto y, perché a non può sapere se a metà strada tra il punto t e il punto y possa subire un incidente oppure incontrare un ingorgo che ne provochi un ritardo: le sue previsioni, pur razionali, non possono tenere conto di tutti i dati in gioco e quindi non possono portarlo ad una certezza. La sua convinzione è dunque un credere, una fede: egli crede – non può esser certo – di giungere entro dieci minuti. Peraltro questo credere in ogni caso non è ovviamente privo di un supporto razionale e la sua convinzione, la sua fede, può dimostrarsi corretta, qualora giungesse effettivamente entro dieci minuti come effettivamente previsto – e come di fatto il più delle volte accade –. Questo esempio mostra due aspetti importanti: a) una fede, di per sé, non è un sentimento, ma è una convinzione della ragione che si basa su motivi non irrazionali: non è una certezza incontrovertibile, ma in essa si può formulare un giudizio fondato su probabilità o argomenti molto forti; b) una fede non è necessariamente qualcosa di inerente la religione, ma la fede anzi permea molte scelte della vita quotidiana dell’uomo.

In special modo, soffermandosi su questo secondo aspetto, è interessante notare come non solo il credere non sia irrazionale, ma come anzi esso sia la regola di ogni momento della vita umana. Quando un essere umano usufruisce di un aereo o di un mezzo pubblico, egli compie un atto di fede nel momento in cui vi sale convinto di arrivare a destinazione: egli non può avere certezza assoluta che arriverà a destinazione sano e salvo – possono sempre accadere incidenti, financo mortali –, ma dalla propria parte può comunque vantare statistiche (dati razionali) che gli dicono che il numero di incidenti è decisamente infimo rispetto al numero totale di viaggi in aereo o sul mezzo pubblico che vengono regolarmente compiuti. Non è irrazionale che egli salga tranquillamente sul mezzo di trasporto, sarebbe invece follia caricarsi di ansia dal momento della salita al momento dell’effettivo arrivo, perché le probabilità sono dalla sua parte. Inoltre, come dimostrato altrove[7], l'uomo è un essere intimamente tradizionale. Egli cioè basa tutta la propria esistenza su una serie di conoscenze indirette, trasmessegli da altri uomini. Molto di ciò che ogni uomo sa non è provato direttamente da lui, dalla sua propria esperienza, ma è invece un credere ad altri, è una fede[8]. Nessuno ha provato, ad esempio, direttamente che gettarsi da un dirupo fa male alla salute, eppure tutti gli uomini lo credono, lo sanno per conoscenza indiretta, perché altri – ad esempio, i genitori da giovanissimi – li hanno avvisati del pericolo, hanno trasmesso loro questa conoscenza. E questa conoscenza non è certo irrazionale o falsa, solo perché trasmessa, solo perché ognuno non ha mai cercato conferme provando su se stesso. Anzi tale conoscenza è razionalmente fondata, nonché una conoscenza esatta; e folle e irrazionale sarebbe invece che ognuno tra gli uomini non si fidasse di (cioè non avesse fede in) questa conoscenza e di chi gliel'abbia comunicata e, per aver conferma diretta e certezza, volesse provare in prima persona gettandosi dal burrone. Quasi tutte le informazioni che gli uomini hanno e utilizzano nella vita sono indirette, sono un credere, un fidarsi d'altri, perché la maggior parte di ciò che si impara lo si impara dagli altri (in famiglia, da amici, con l’istruzione, etc.). Eppure questo credere non é irrazionale perché sono informazioni esatte, dateci da soggetti affidabili. Giungendo al problema centrale, la fede è proprio questo: credere in ciò che non conosciamo per via diretta, ma che ci è comunicato da altri, che ci è testimoniato da altri. E questa testimonianza è accettabile, può essere razionalmente accettata, perché i soggetti testimoni, coloro che la trasmettono, sono ritenuti affidabili in quanto informati sui fatti, sulla conoscenza che hanno trasmesso, testimoniato. A meno di non accettare una nozione ristretta, angusta, riduttiva, di "ragione" (la cosiddetta “ragione strumentale”[9] propugnata dal pensiero moderno), dicendo sia razionale solo ciò che è scientificamente dimostrabile e quindi utilitaristico – e il che è falso, altrimenti dovremmo bandire dal campo del razionale qualunque valutazione di tipo probabilistico (in quanto solo parzialmente dimostrativa) e qualunque conoscenza di tipo indiretto –, una fede di qualunque tipo si trova dunque ad essere sostenuta dalla ragione (precisamente la cosiddetta “ragione cognitiva” o “speculativa”[10]). Un credere, di per sé, non è irrazionale, può esserlo come può essere invece fondato sulla ragione, ove possibile.

La medesima cosa vale per la fede in ciò che non percepiamo sensibilmente, cioè per la fede nel trascendente. La fede di un uomo o donna può essere certamente priva di prove a proprio sostegno, può essere un credere puro e semplice, privo di appiglio razionale: un uomo per credere in qualcosa non necessita di prove razionali[11], ma ciò non esclude che esse esistano e che un altro uomo possa credere la medesima cosa sulla base di queste prove razionali, perché, seppure non vi sia certezza scientifica che il trascendente esista, vi possono sempre essere informazioni bastevoli per credervi, senza che ciò sia quindi irrazionale. Non c'é certezza, ma ci può pur sempre essere razionalità nella scelta di fede e la convinzione dell’uomo può essere poi rispondente alla realtà di fatto, potendo Dio esistere, come di fatto creduto dai credenti.


NOTE:

[1] N. VARISCO, Trascendente, voce in Enciclopedia filosofica vol. XII, Bompiani, 2006, pagg. 11753-11754.

[2] G. MARCEL, Fede e realtà. Osservazioni sull’irreligione contemporanea, Edizioni Studium, 2008, pagg. 48 e 50.

[3] P. ODIFREDDI, Se Dio è un’illusione, in la Repubblica 6 settembre 2007, pag. 43.

[4] R. TIMOSSI, Ma se il mondo è senza scopo, spiegateci perché, in Avvenire 8 settembre 2010, pag. 21.

[5] G. DI NAPOLI E P. A. SEQUERI, Fede, voce in Enciclopedia filosofica vol. IV, Bompiani, 2006, pagg. 3997-3998.

[6] Per un’esposizione sintetica e chiara del discorso sulle passioni cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Editrice Vaticana, 2006, n. 1763-1768, pagg. 493-494.

[7] F. GIORGIANNI, Come i nani ed i giganti. Tradizione e Rivoluzione a confronto, testo inedito [si spera di prossima pubblicazione].

[8] A. SCOLA E G. REALE, Il valore dell’uomo, Bompiani, 2007, pagg. 131-132.

[9] M. INTROVIGNE, Il segreto dell’Europa. Guida alla riscoperta delle radici cristiane, Sugarco, 2008, pag. 58.

[10] S. ALBERGHI, V. SAINATI, E. BERTI, Ragione speculativa e pratica, voce in Enciclopedia filosofica vol. X, Bompiani, 2006, pagg. 9366-9367.

[11] CONCILIO ECUMENICO VATICANO I, Costituzione dogmatica Dei Filius, can. 3.5, in H. DENZINGER, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Edizioni Dehoniane Bologna, 2009, pag. 1059.


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