IL BLOG DI RISCOSSA CRISTIANA

IL RISCHIO CHE IL FETO SOPRAVVIVA


di Piero Laporta


U

n bambino, concepito ventidue settimane prima, sopravvissuto lunedì 26 aprile all’aborto nell’ospedale di Rossano Calabro, fu lasciato vivo per un giorno intero su un tavolo, senza cure. Martedì spirò. Il cappellano non lo battezzò; per noi è Gianpasquale.

Il professor Carlo Flamigni, ginecologo e membro del Comitato nazionale per la bioetica, sostiene che è stato commesso un errore:«Non si pratica un’interruzione di gravidanza alla ventiduesima settimana; esiste il rischio che il feto sopravviva».

Il dizionario definisce “rischio” come “pericolo al quale ci si espone o in cui ci si imbatte”. Gianpasquale si è imbattuto nel rischio di sopravvivere nell’ospedale di Rossano Calabro.

Un paziente ospedaliero usualmente ha diritto alla speranza, non al “rischio”, di sopravvivere. Per Gianpasquale non fu così. Bisognava ucciderlo prima, come spiega l’esperto di bioetica, professor Flamigni:«A quell’età (ventidue settimane, NdR) di norma il feto non ha ancora costruito gli alveoli polmonari, quindi la sopravvivenza è tecnicamente impossibile. Ma, poiché la biologia riserva sorprese, esistono rarissimi casi in cui gli alveoli sono già formati. Per questo alla ventiduesima settimana non si dovrebbe interrompere la gravidanza per un principio di precauzione. È possibile fare prima tutte le indagini necessarie ad escludere malformazioni, e quindi intervenire prima».

Di chi è la responsabilità di questa mancata applicazione del principio di precauzione? L’esperto di bioetica, professor Flamigni, non ha dubbi: «In Italia sempre più spesso le donne sono costrette a “combattere” con i ginecologi obiettori, la cui percentuale è aumentata a dismisura. È sempre più difficile riuscire ad interrompere una gravidanza, tanto che molte donne vanno all'estero. Se questo è accaduto anche a Rossano, tutti quei medici devono sentirsi responsabili».

Queste dichiarazioni sono state rilasciate da Flamigni in un’intervista al “Fatto Quotidiano” del 29 aprile scorso. Ho atteso per quasi due settimane un cenno di smentita. I giornalisti, si sa, talvolta sono pasticcioni e, specialmente nelle questioni alte della scienza e in quelle, ancora più insidiose della biologia, cioè della Vita, quella con la V maiuscola, è facile prendere cantonate. Quando la disputa è tra la Vita e la Morte, com’è nel caso in esame, il rischio di cantonate è doppio. Consapevole di questo, attesi fiducioso. Non arrivò alcuna smentita.

C

on molto rispetto per l’esperto di bioetica, cioè etica della Vita, professor Flamigni, non solo è stato violato, come egli ha affermato, il principio di precauzione, ma è stato tuttavia introdotto un principio di analogia espressamente vietato dalla nostra Costituzione in materia penale, figurarsi dunque se sia possibile gabellarlo in questioni ben più delicate di bioetica, cioè, ripetiamolo, etica della Vita, quantunque talvolta indirizzata verso il suo opposto, la Morte.

Cominciamo col principio di precauzione, evocato dall’esperto Flamigni.

Essere esperti di bioetica, cioè etica della Vita, non autorizza a sviare dal fatto essenziale: è stata violata la legge, la tanto invocata e immutabile legge 194/78, il cui articolo 7, ultimo comma, prescrive:” Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l'interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell'articolo 6 e il medico che esegue l'intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”.

L’articolo 6 comma a), a sua volta, recita:”L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;”.

Diamo pure per certo che la madre di Gianpasquale corresse un grave pericolo di vita. In quanto alla possibilità della “vita autonoma del feto”, ci pare che Gianpasquale l’abbia dolorosamente dimostrata per 24 lunghe ore, durante le quali ha “rischiato di sopravvivere”.

Il professo Flamigni, che è un esperto di bioetica, cioè etica della Vita, ma anche con la morte ci pare alquanto a suo agio, chiama in causa i medici obiettori di coscienza, tracciando un’analogia tra le responsabilità di chi ha lasciato Gianpasquale sul tavolo e quelle dei sanitari obiettori. Anzi, visto che c’è, carica la misura:”Tutti quei medici devono sentirsi responsabili”.

C’è un fatto orrido e altrettanto certamente c’è una responsabilità, ma non saranno le analogie di Flamigni, esperto di bioetica, cioè etica della Vita e della morte, a fuorviarci.

La legge 194/78 assicura il diritto all’obiezione di coscienza. Punto.

La responsabilità per la violenza portata sulla madre e sul bambino, su Gianpasquale, dunque sulla società, andando fuori dal segmento di tempo consentito dalla legge 194/78 per praticare l’uccisione del feto, che “rischia di sopravvivere” - e infatti è sopravvissuto - non può essere ascritta al personale sanitario che obietta, esercitando un suo legittimo diritto.

Q

uella responsabilità deve essere ripartita fra coloro i quali, consentendo di compiere aborti, non solo hanno omesso di dedicarvisi in tempo utile, ma hanno esercitato, come ha affermato lo stesso Flamigni in presenza di un “rischio di sopravvivenza” del nascituro.

Il tentativo goffo di questo esperto di bioetica, cioè etica della Vita, quantunque a suo agio con la morte, di tracciare un’analogia tra le responsabilità degli obiettori e quelle di chi accetta di uccidere un nascituro non meriterebbe ulteriori commenti se non nascondesse aspetti più nefasti.

Se Gianpasquale avesse vittoriosamente superato il “rischio di sopravvivenza” corso nell’ospedale di Rossano Calabro, divenuto un giovanotto avrebbe potuto svolgere innumerevoli e onorati lavori. Sarebbe potuto diventare, per esempio, ginecologo ed esperto di bioetica qui in Italia, oppure andare in Iran e svolgere un’altra onorata carriera, per esempio il boia. No, non sorridete, perché è davvero un mestiere delicato quello di infliggere la morte, con la minore sofferenza possibile per il condannato.

Poco importa che si sia favorevoli o, come nel mio caso, contrarissimi alla pena di morte; non si può non concordare che è auspicabile che il boia abbia un’alta professionalità tale da evitare la sofferenza al condannato. Questa sofferenza, giova ricordarlo, si traduce nell’esporlo al “rischio che sopravviva”, così ben combattuto da Flamigni, esperto di bioetica, etica della Vita e della Morte.

La sofferenza del condannato a morte, al di là di quella prevista dalla sua pena, è reputata così ingiusta che, in numerosi paesi, la cui giurisdizione prevede la pena capitale, la fortuita sopravvivenza del condannato a morte è motivo in se stesso di grazia perpetua.

Gianpasquale, come si sa, non ha avuto la fortuna di essere condannato a morte in un’aula di giustizia, bensì in una sala operatoria di un ospedale, dove è stato esposto al flamigniano “rischio di sopravvivenza”.

Non di meno se Gianpasquale potesse, ci domanderebbe perché, se fosse divenuto adulto la sua professionalità di medico ginecologo avrebbe dovuto avere, secondo talune logiche etiche nostrane, dei segmenti di tangenza con quella di un onorato boia.

Se Gianpasquale fosse divenuto adulto, così come avrebbe avuto diritto, avrebbe avuto anche ulteriori dubbi e curiosità, indice d’una intelligenza vivace, se non fosse scampata al “rischio di sopravvivenza”.

T

ra i tanti principi, oltre a quello di prudenza, evocato in maniera così originale dal celebre esperto di bioetica, vi è anche quello di proporzionalità.

In altri termini ogni misura prevista dalle leggi dev’essere idonea all’obiettivo da perseguire.

La legge, per esempio, si preoccupa di imporre un comportamento positivo verso tutti gli esseri viventi. Impone quindi un rispetto a tutti i cittadini anche verso gli animali, indipendentemente dalle loro qualità intrinseche e, tanto meno dalla loro utilità pratica. Si tratti di un vitello per fare bistecche, d’un innocuo cardellino o di un gatto, la nuova legislazione in vigore dal 2004, per i maltrattamenti verso gli animali prevede la reclusione da tre mesi ad un anno o la multa da 3mila a 15mila euro. Inoltre i termini di prescrizione sono stati allungati da 2 a 5 anni. Va da sé che queste misure si applichino anche a un feto di vacca, di cardellino o di gatto. Questo perché la “dignità animale”, a differenza della “dignità umana”, viene riconosciuta indipendentemente dalle settimane di gestazione o dall’essere più o meno scampati al flamignano “rischio di sopravvivenza”.

Gianpasquale non ha avuto la fortuna d’essere un vitello, un cardellino o un gatto. Nessuno pagherà per il felicemente risolto “rischio di sopravvivenza” di Gianpasquale; nessuno può far finta di non vedere quest’orrida barbarie.

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