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DAL CONCEPIMENTO ALLA MORTE NATURALE. PERCHÉ LA VITA È UN PRINCIPIO NON NEGOZIABILE



di Alessia Affinito


E’ del marzo scorso la prolusione che il Presidente della Cei, Angelo Bagnasco, ha tenuto come di consueto all’assise dei vescovi italiani, soffermandosi su un buon numero di temi: dall’impegno pastorale alla questione educativa, senza trascurare l’Anno sacerdotale in corso e la crisi economica internazionale. Ma l’intervento, alla vigilia del voto regionale, verrà ricordato per un’altra ragione. Prima di terminare il Cardinale ha ribadito quel che per un cattolico in particolare dovrebbe suonare come un’ovvietà. Riferendosi al tema dell’aborto ha ricordato i tre milioni di bimbi non nati nel solo 2008 in Europa, osservando che «da qualche tempo, nella mentalità di persone che si ritengono per lo più evolute, si è insediato un singolare ribaltamento di prospettive nei riguardi di situazioni e segmenti di vita poco appariscenti, quasi che l’esistenza dei già garantiti, di chi dispone di strumenti per la propria salvaguardia, valga di più della vita degli “invisibili”». Da qui l’invito ad inquadrare «con molta attenzione ogni singola verifica elettorale», valutando programmi e candidati sulla base del rispetto assegnato alla vita umana, dal concepimento alla morte naturale. Nulla di nuovo sotto il sole. E invece nel giro di qualche ora si infittisce un rincorrersi di commenti e interrogativi sul significato di una tale priorità, che a taluni pare discutibile. Segue, a breve distanza, la diffusione di un documento dei vescovi liguri – sottoscritto dallo stesso Bagnasco, ma redatto giorni prima – nel quale si precisa che il diritto alla vita, quello al lavoro, alla casa, alla solidarietà, all’accoglienza degli immigrati e alla libertà dalla malavita «vanno assunti nella loro integralità». In breve, non si tratta di anteporre un bene agli altri. Piuttosto sarebbero da intendersi come un complesso indivisibile. Come spiegare allora quel chiaro, inequivocabile, riferimento alla difesa della vita? Un interrogativo la cui risposta consente di fare chiarezza non solo sulla missione della Chiesa nella società, ma sul ruolo della stessa politica.

In Italia vi sono ben altre urgenze: un sistema economico in affanno, le riforme da attuare, l’immigrazione, la questione meridionale. E’ questa l’ obiezione che puntualmente riaffiora ogni qual volta l’argomento “aborto” torna nel dibattito pubblico. La difesa dei concepiti appare ai più come una battaglia di retroguardia nella quale sarebbe velleitario spendere energie, o peggio, staccata dalla totalità delle questioni sociali in attesa di soluzione. A questo equivoco, in particolare, era diretto il riferimento all’aborto del Presidente della Cei. La Chiesa continua a ribadire, pressoché in solitudine, la centralità della vita umana (insieme alla libertà educativa e alla tutela della famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna, uno dei cosiddetti valori “non negoziabili”), mentre politici ed osservatori sembrano di altro parere. Ci si domanda la ragione di una tale insistenza nel considerare il diritto alla vita un principio inviolabile, al punto da ritenerlo discriminante al momento della scelta tra differenti opzioni politiche e culturali. A ben vedere non si tratta di un’ostinazione di principio, legata al contesto sociale o alla “strumentalità politica” del momento, come pure è stato affrettatamente scritto. E neppure è in gioco una motivazione che attiene alla fede in sé stessa (la vita come dono di Dio), che un non credente potrebbe legittimamente non condividere. Vi è una ragione precisa, e per così dire “laica”, che fa della difesa della vita umana in ogni sua fase un valore prioritario rispetto ad ogni altro; e la Chiesa cattolica appare oggi l’unico soggetto nello spazio pubblico ad esserne pienamente consapevole.

Il diritto alla vita è quello che fonda ogni altro diritto umano. Senza il suo rispetto integrale (quindi dei già nati come dei non ancora nati) tutti gli altri semplicemente non possono darsi. E quelli dati corrono il serio rischio di essere messi in discussione. Dal momento che è la vita il bene primo di cui è chiesta tutela attraverso la costituzione di un contratto sociale, la sola possibilità che lo Stato consenta la soppressione di un potenziale membro della comunità, senza porre alcun veto, dovrebbe essere sufficiente a suggerire che qualsiasi altro bene, e diritto corrispondente, sia privo di una reale protezione. Com’è possibile del resto ritenere che sia protetta la libertà economica o la libertà di espressione se il soggetto che ne sarà titolare non gode di un pieno diritto a nascere, e rischia - almeno per il periodo della gestazione - che la sua vita sia messa a repentaglio? Non è forse l’essere umano il solo referente dei diritti civili e politici? A maggior ragione la tutela della vita appare prioritaria in una fase storica come l’attuale, in cui si preannuncia una svolta nell’ambito della programmazione genetica che promette di ridefinire l’umano. E’ il centro della “questione antropologica” cara a Benedetto XVI, e declinata in questi anni dal cardinale Ruini e oggi dal suo successore alla presidenza della Cei.

Accanto a questa motivazione, che appellandosi all’evidenza della ragione e del senso comune non ha alcunché di “religioso”, ve n’è un’altra che attiene invece alla missione della Chiesa come sale e lievito nella società, alla quale essa ha imparato col tempo a guardare per difendersi da improprie quanto strumentali pressioni e dichiarazioni di prossimità. L’indisponibilità della vita è a ben vedere la sola reale garanzia di un autentico umanesimo, contrapposto ad uno soltanto di facciata da proporre nei termini di uno scambio politico. Detto altrimenti: la compresenza di differenti princìpi non è da intendersi su un piano strettamente religioso, e la Chiesa italiana lo ha compreso molto bene, ma su quello dell’azione politica. La Chiesa indica così un criterio di giudizio alla cittadinanza, avvertendo che non possono essere credibili quegli schieramenti e quei candidati che scelgono da una pluralità di princìpi cosa promuovere, omettendo ciò che contrasta con la loro storia o con la loro ideologia. Si spiega in tal modo la coerenza tra il primato attribuito ai valori “antropologici” e al rispetto della vita in tutte le sue fasi - presente nella prolusione del cardinale Bagnasco - e la nota con la quale si indicava una continuità con altri diritti “sociali”.

Alla luce di tali ragioni è comprensibile anche la cosiddetta “non negoziabilità”. Venire a patti sull’intangibilità della vita umana significherebbe relativizzare l’intero sistema dei diritti umani, e, per la Chiesa stessa, rinunciare alla propria equidistanza dai differenti schieramenti. Si tratta, più semplicemente, di fissare in termini generali il discrimine tra una politica realmente ispirata ad alti ideali umani e sociali, e una che utilizza invece questi ultimi opportunisticamente a fini di consenso. Esaltare la tutela del lavoro dignitoso e al contempo difendere un’assoluta libertà d’aborto. O, al contrario, affermare di voler tutelare ogni fase dell’esistenza e ignorare i sistematici assalti ai diritti di chi lavora. Rivendicare tutele per l’ambiente, senza trovare scandaloso che embrioni umani vengano prodotti in serie, selezionati e distrutti come merci. Predicare la solidarietà verso gli ultimi e chiedere, allo stesso tempo, l’attribuzione di un “diritto a morire” che si tradurrebbe nell’eliminazione dei più deboli. Sono soltanto alcune delle contraddizioni su alcuni temi decisivi, trasversali ai diversi schieramenti, che rischiano di veicolare una concezione della religione come instrumentum, una sorta di “supermarket” dei valori al quale attingere in assenza di un profilo politico autonomo.

Non è questo che la Chiesa intende e lo afferma con chiarezza. Con il dissolversi dell’unità politica dei cattolici questa ha dato prova di saper comunque indicare la rotta. Deve fare i conti tuttavia con la “fine delle ideologie” e con una politica priva di idee, di riferimenti culturali, di proposte. Schieramenti in cerca di consenso mettono in fila parole chiave prive di consistenza, senza spiegare come intendono articolare concretamente un’azione politica. In assenza di un progetto definito, questi vivono piuttosto dell’estenuante ricerca di soluzioni temporanee, di compromessi da stabilire sull’onda emotiva del momento. E’ sin troppo facile fare ricorso così a quel patrimonio di princìpi che la Chiesa custodisce, cedendo alla conseguente tentazione di operare una selezione per evitare prevedibili malumori. Ma si tratta di una tentazione fatale, che può produrre solo scelte incoerenti e politiche pubbliche inefficaci. Certo che occorre una mediazione tra istanze differenti, la quale spetta all’attività politica vera e propria, ma sarà possibile – e credibile - solo dopo che questa sarà in grado di darsi autonomamente un’identità e di mostrare rispetto per i valori della propria storia. Quando c’è, naturalmente.

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