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CHIESA E IMPRENDITORI D’ACCORDO SUL FATTORE MORALE DELLO SVILUPPO



di Alessia Affinito



Lo ha spiegato perfettamente, a credenti e non credenti, Benedetto XVI nella sua ultima enciclica Caritas in Veritate. La crisi che dal settembre 2008 ha assalito l’economia globalizzata, ma più in generale le crisi che sembrano presentare un segno meramente economico, hanno una radice di carattere morale e dunque possono essere correttamente affrontate solo tornando a considerare in modo nuovo e rispettoso l’uomo e le sue istanze. Non è una visione cattolica - e lo dimostrano gli innumerevoli incontri e dibattiti di diverso orientamento sull’enciclica - ma una lettura non ideologica dell’equilibrio geopolitico che si è andato delineando da qualche anno a questa parte, accompagnata da una solida proposta di riflessione. L’aspetto sorprendente è che ad averlo compreso meglio di altri è stata la Confederazione dell’industria italiana - Confindustria - la quale per bocca della sua presidente, Emma Marcegaglia, ha finalmente posto l’accento sulla natura di una stagnazione che affligge in particolare l’Italia e la sua economia, invitando la politica ad un salutare cambio di prospettiva.

Nella sua approfondita relazione annuale, la Presidente Marcegaglia si è a lungo soffermata sulle difficoltà che il fare impresa incontra in un contesto come quello italiano, elencando cattive ricadute che vanno dal crollo della produzione industriale alla fuga dei giovani dal Paese. Non ha trascurato, in tale rassegna, anche il sensibile peggioramento della qualità della spesa pubblica, che si accompagna alla questione irrisolta di un Mezzogiorno «che azzoppa il potenziale di sviluppo del paese». E’ in questo quadro che sono stati evidenziati due aspetti degni di particolare attenzione: un allargamento dissennato del bilancio pubblico «aggravato in Italia da favoritismi e clientelismi, da sprechi e appropriazione di risorse dei contribuenti, da corruzione» e, accanto ad esso, l’esigenza di profonde riforme strutturali che modifichino l’operare dello Stato e il perimetro della sua azione. Ignorare tali aspetti, nel tentativo di raddrizzare il legno storto dell’economia attraverso interventi occasionali o misure volte a punire determinate categorie di attori economici, non può che compromettere in maniera definitiva la situazione, lasciando inalterati i problemi esistenti.

L’elemento di estremo interesse nelle parole della Marcegaglia, sul quale vale la pena riflettere, è a ben vedere l’accento posto su un fattore per così dire “immateriale”, indicato come decisivo nel declino italiano. In altre parole, all’opinione corrente che tende a fare della qualità e della tipologia della legislazione la causa - e dunque la chiave risolutiva - dei problemi strutturali della nostra economia, la Presidente di Confindustria ha preferito un approccio decisamente più liberale, che tende invece a considerare gli aspetti umani – e in ultima analisi morali – di una pesantissima crisi. Da qui la sintonia con la lettura dall’enciclica pontificia. La sopravvivenza di ampie sacche di favoritismi e di clientele, la cronaca quotidiana di un nepotismo esteso a tutti i livelli, il ricorso a “raccomandazioni” senza le quali appare velleitario aspirare ad un inserimento, pur all’interno di un’economia ormai globalizzata e formalmente concorrenziale, sono all’origine del ristagno di un sistema-paese che nella sostanza resta profondamente arretrato, e dunque improduttivo. Ma quel che è peggio, danno forma ad un’organizzazione dove l’eccezione finisce per diventare “la” regola, con inevitabile scadimento verso la mediocrità e la corruzione.

Un’economia realmente libera ed “umana”, al contrario, esige che l’accesso al mercato del lavoro – ma più in generale ad un qualsiasi ruolo di responsabilità - avvenga per tutti alle medesime condizioni d’ingresso e sulla base di una vera concorrenza, a prescindere cioè dalla rete clientelare o familiare cui si appartiene per nascita. Si tratta della cosiddetta “eguaglianza delle opportunità”, del tutto sconosciuta in Italia. Queste andrebbero pertanto distribuite non sulla base di un criterio di favore - prescindendo così dal valore della persona e dalle sue effettive capacità - ma di un criterio che tenga conto esclusivamente delle qualità di chi si candida per un certo ruolo. Da questa capitale differenza – riconducibile a due distinte visioni del rapporto Stato-individuo - derivano importanti conseguenze macroeconomiche. Laddove a prevalere è il criterio meritocratico, ad esempio, anche una contrattazione flessibile o condizioni lavorative prive di ampie tutele non risultano necessariamente d’ostacolo allo sviluppo, dal momento che sarebbe antieconomico prima di tutto per un’impresa rinunciare ad un dipendente capace, inducendolo ad andarsene a causa di pessime condizioni d’impiego. Inoltre, come insegna il caso americano, se è più marcata la flessibilità è tuttavia consentito anche un equo e rapido reinserimento attraverso una nuova occupazione. Quando si verifica il contrario di tutto ciò - e dunque assenza di trasparenza e prevalenza di meccanismi cooptativi – saranno inevitabili anche gravi inefficienze e sprechi, i cui costi vengono scaricati nel tempo sull’intera collettività. Il caso-Italia ne è un triste esempio.

Da un punto di vista morale parliamo quindi del mancato rispetto di un principio di giustizia, intesa come equità, che per gli autori classici costituiva non a caso l’asse portante di ogni aggregazione umana, quel che le consentiva di stare in piedi e di sopravvivere. Più recentemente si ritrova la centralità di tale principio anche nelle riflessioni di teoria politica sviluppate da autori come Rawls o Sen, tese a rielaborarlo alla luce di una sempre più marcata crisi del welfare e del fenomeno-globalizzazione. Ma l’obiettivo di Confindustria - in una fase critica come l’attuale - è anche quello di risvegliare il senso della responsabilità individuale: ciascuno è chiamato a riconsiderare quale tipo di decisioni prendere, qui ed ora, nell’ambito delle proprie attività, per operare in modo giusto. L’alternativa infatti è quella di limitarsi ad accusare lo stato della legislazione, o la struttura burocratica, per le costose inefficienze esistenti.

La giustizia sociale non può ottenersi a partire da una norma o da un’imposizione “dall’alto” – è anche uno dei fondamentali insegnamenti della Caritas in Veritate - ma prende le mosse da un rinnovamento morale ispirato al rispetto di alcuni princìpi fondamentali, che ha come soggetto la singola persona. E’ questa a dover essere educata, e non il sistema nel suo complesso ad essere modificato, come preteso invece dai migliori totalitarismi. Tali princìpi si rivelano così non solo necessari per la crescita armonica dell’individuo, ma essenziali anche per la stabilità e il benessere di una comunità.

La felice sintonia tra la prospettiva di Benedetto XVI e le parole del Presidente degli imprenditori italiani può essere dunque il segno che si va affermando una decisiva consapevolezza, finora oscurata. La complessità dei problemi che l’Italia si trascina da tempo non ha speranza di risoluzione se non a partire da una rinnovata coscienza dell’impegno personale e quotidiano di ciascuno, ispirato alla giustizia e alla responsabilità verso l’altro.

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