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RAHNER E LA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE



di P. Giovanni Cavalcoli, OP


Nella molteplicità degli scritti rahneriani, dedicati ai più disparati temi della teologia, della morale e dell’antropologia, invano cercheremmo una trattazione impegnativa dedicata all’etica politica, con tutto il suo corredo di argomenti specifici - la giustizia sociale, i diritti dell’uomo, il bene comune, il rapporto fra temporale e spirituale, i fini della società politica, l’ordinamento dello Stato, ecc. -; Rahner parla di queste cose solo incidentalmente e in modo piuttosto generico, anche perché Rahner, per la verità, è più un teologo e maestro di spiritualità, che un sociologo e filosofo.

Tuttavia, considerando la concezione rahneriana dei fondamenti dell’etica cristiana, della relazione interumana, delle finalità della storia e della stessa vita ecclesiale, non è difficile comprendere, per logica deduzione, quale sarebbe stato il pensiero rahneriano in campo sociale e politico, se egli avesse dedicato maggiore attenzione a questa tematica così importante del vivere umano. In altre parole: che tipo di filosofia politica si può ricavare dalla metafisica, dalla teologia e dall’antropologia di Rahner?

La risposta non è difficile: quella che ormai da quarant’anni si suole chiamare “teologia della liberazione”, un modo di concepire la teologia che ruota tutto attorno alla questione della liberazione dei poveri dall’oppressione dei ricchi. Questo tipo di teologia, come è noto, ha avuto un enorme sviluppo in America Latina, soprattutto dopo la famosa Conferenza dei Vescovi latinoamericani di Medellín nel 1968, la quale incitò vigorosamente la Chiesa ad un impegno sistematico ed anche politico per la liberazione dei poveri e la loro elevazione sociale.

Nobile ed opportuno intervento fu quello dell’Episcopato. Senonchè però diversi teologi intesero questo appello come se esso implicasse l’accantonamento della prospettiva cristiana dell’elevazione dell’uomo alla vita soprannaturale dei figli di Dio e tutto il cristianesimo e la teologia si risolvessero nell’assicurare all’uomo la felicità entro i limiti di questa vita mortale. Fondatore famoso della teologia della liberazione fu il prete peruviano Gustavo Gutiérrez, autore di un libro con lo stesso titolo, edito in Italia dalla Queriniana nel 1972.

Gutiérrez tutto sommato fu abbastanza moderato. Ma ci furono altri teologi, come per esempio Leonardo Boff, i quali assunsero posizioni ancora più estranee al cristianesimo, vicine al marxismo, tanto che nel 1984 la Congregazione per la Dottrina della Fede dovette intervenire mettendo in guardia da questi errori, senza misconoscere alcuni meriti di questa teologia, in particolare l’insistere che faceva nel dovere del cristiano di operare associativamente per ottenere anche con mezzi politici una maggiore giustizia sociale.

Per quanto riguarda il contesto generale del pensiero rahneriano, come ho messo in luce in un mio recente libro[1], esso conduce logicamente alla teologia della liberazione in modo simile a come dal pensiero di Hegel (al quale appunto Rahner si ispira) si può ricavare e difatti è nato il pensiero di Marx[2]. Infatti, come tutti sanno, Marx chiama “dialettico” il suo materialismo, con esplicito riferimento alla dialettica hegeliana.

E’ vero che Marx adotta il realismo gnoseologico al posto dell’idealismo hegeliano. Ma ciò non impedisce a Marx di mantenere la concezione dell’uomo come autocoscienza assoluta, sulla scia di Hegel, il quale porta alle estreme conseguenze il cogito cartesiano. Pertanto il “realismo” marxiano è ben diverso dal realismo biblico e tomista implicante l’obbedienza della mente umana ad una realtà creata da un Dio trascendente ed indipendente dal pensiero umano.

Il realismo marxiano è solo funzionale all’autoaffermazione dell’uomo che si mette al posto del Dio cristiano. In ciò consiste l’ “ateismo” marxiano. Marx ammette in certo modo Dio: solo che per lui Dio non è un Dio trascendente come quello che cristiano, ma Dio è l’uomo stesso (“l’uomo è Dio per l’uomo”). Se la frase non suonasse paradossale, si potrebbe dire che l’ateismo di Marx è un ateismo “teologico”.

Ma qui non c’è molta differenza da Hegel, giacchè già per Hegel Dio non è che il massimo compimento dell’uomo, così che l’uomo è un Dio “alienato”, un Dio che nega se stesso come uomo e torna a se stesso come Dio (questa è la dialettica hegeliana). Quindi per Marx la liberazione dell’uomo (del “povero”, per usare il linguaggio della teologia della liberazione), è il processo col quale il “povero”, ovvero l’uomo alienato - questo vale anche per Hegel - libera se stesso da un Dio trascendente (e dalle classi ecclesiastiche e politiche che lo rappresentano), il Dio della Bibbia, per affermare se stesso come vero Dio ovvero Uomo in senso assoluto.

Ma Rahner non è lontano da queste posizioni, nonostante l’uso di un linguaggio cattolico tradizionale. Ecco che allora la teologia della liberazione che si può ricavare dal contesto rahneriano non è lontana dalla maniera con la quale prima Hegel e poi Marx concepiscono la liberazione dell’uomo.

La differenza di fondo tra l’impostazione idealista di Hegel e di Rahner, da una parte, e quella di Marx e dei teologi della liberazione, dall’altra, è che mentre nei primi due il punto di partenza del pensiero e dell’essere è l’io assoluto o, come dicono, il “soggetto”, di origine cartesiana, soggetto che all’interno dell’autocoscienza si afferma e si espande fino a porre l’alterità e la socialità, nel caso di Marx e dei teologi della liberazione il punto di partenza è una coscienza collettiva che percepisce il proprio stato di umanità oppressa (la “coscienza di classe” in Marx, la cosiddetta Iglesia popular nei teologi della liberazione).

Il legame fra Rahner e i teologi della liberazione si ricava facilmente dall’esame del pensiero del teologo Johann Baptist Metz, discepolo di Rahner e teorico della teologia della liberazione, che egli chiama Politische Theologie. Nel pensiero di questo autore è possibile vedere come il rahnerismo può condurre alla teologia della liberazione.

Ma il detto legame appare con una certa evidenza anche dalla recente storia della Compagnia di Gesù, alla quale sono appartenuti sia Rahner che molti teologi della liberazione ed anche molti Gesuiti i quali - per esempio in Nicaragua - negli anni ’80 sono stati attivamente impegnati in politica per far applicare i princìpi della teologia della liberazione.

Questa impostazione, largamente diffusa nella Compagnia di Gesù e allora permessa del Preposito Padre Pedro Arrupe, condusse la Compagnia ad un aspro scontro prima con Paolo VI ed ancor più con Giovanni Paolo II, il quale, come si sa, ad un certo punto tolse al P.Arrupe il comando dell’Ordine per darlo al Padre Paolo Dezza, che però fu sostituito dopo breve tempo dal Padre Piet-Hans Kolvenbach, regolarmente eletto dalla Compagnia. Ma anche con questo nuovo Preposito rimase la disobbedienza di molta parte della teologia dei Gesuiti (rahnerismo collegato a teologia della liberazione) al magistero della Chiesa. Questi fatti sono narrati con dovizia di documentazione in due liberi dei quali consiglio la lettura[3].

La questione seria che oggi si pone non solo per la Compagnia di Gesù, ma per la Chiesa intera, nella quale la Compagnia occupa un posto di primo piano e quindi di grande responsabilità, è quella di andare alla radice del male, che non è tanto la questione morale o politica, ma sono gli errati princìpi gnoseologici, metafisici ed antropologici della teologia della liberazione, la quale certo oggi si è disfatta di una certa terminologia marxista (“lotta di classe”, “rivoluzione”, “borghesia”, “capitalismo”, ecc), ma ha mantenuto l’impostazione immanentistica, antropocentrica e secolarista anticristiana. Ebbene questi principi sono quelli rahneriani, anche se evidentemente non sono i soli.

Da dopo il Concilio la Compagnia di Gesù ha giustamente cercato di incarnare la spiritualità ignaziana nell’oggi, secondo le richieste del Concilio. Purtroppo per i Gesuiti, come altri Ordini, nel mio compreso, ossia l’Ordine domenicano, ha prevalso una maniera modernistica di intendere l’ammodernamento, un modo basato su di una falsa interpretazione del Concilio.

Per questo tutti i Papi del postconcilio, compreso il presente Pontefice, ci esortano ad applicare veramente il Concilio ed allora avremo sul serio quella “nuova Pentecoste” che fu nei sogni del Beato Giovanni XXIII.

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[1] Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009.

[2] Tale derivazione di Marx da Hegel è bene messa in luce da Georges Cottier,OP, nel suo libro L’athèisme du jeune Marx et ses origines hégéliennes, Ed.Téqui, Paris 1959.

[3] Malachi Martin, I Gesuiti, Sugar Edizioni, Milano 1988 e Antonio Caruso, SJ, Tra grandezze e squallori, Edizioni Vivere In, Monopoli (BA), 2008.