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PAROLA E COMUNITA’ POLITICA


Saggio su vocazione e attesa


di Fabio Trevisan


Nell’accostare questo interessante saggio di Stefano Fontana, uno dei maggiori studiosi di Dottrina Sociale della Chiesa, è doveroso innanzitutto sgomberare il campo da un equivoco di natura lessicale.

Mi riferisco al significato di “Parola”, che nulla ha a che vedere con l’enfasi postconciliare attribuita alla Parola di Dio, ma piuttosto al Logos evocato magistralmente da Benedetto XVI a Ratisbona.

Il vero significato di “Parola” sta infatti nel Senso, nel Logos originario che non abbiamo prodotto noi, ma che ci viene gratuitamente dato e che corrisponde ad un appello alla nostra responsabilità cui non dobbiamo sottrarci.

Come ci dice l’Autore nell’Introduzione del saggio, si fatica a leggere nelle cose e nella nostra vita una parola su di noi, un appello, una vocazione e questo perché non si è risposto adeguatamente e non si è fatto spazio alla presenza, al posto di Dio nella storia, nella nostra storia.

In una visione antropocentrica dell’universo, l’homo faber, l’uomo pragmatico ha manipolato e stravolto la realtà delle cose, perfino del matrimonio e della famiglia, non percependone più il vero senso, la straordinaria bellezza. Anche l’ambiente naturale, in questa prospettiva riduzionistica, viene percepito solamente come un insieme di oggetti, funzionali al soddisfacimento dei bisogni dell’uomo.

Le radici profonde delle crisi che stanno investendo noi e la nostra società si possono riassumere essenzialmente in una crisi della vocazione e di tre atteggiamenti di fondamentale importanza: l’accoglienza, la gratitudine, la gratuità.

L’accogliere l’Altro (Dio) e l’altro (il prossimo) significa coglierne il senso di cui sono portatori per essere grati di averli incontrati, riconoscenti di averli, come doni, gratuitamente ricevuti.

La crisi della vocazione quindi non riguarda solo l’ambito sacerdotale, ma inerisce alla vita di tutti noi quali coniugi e genitori, nei ruoli professionali, politici, culturali, sociali, educativi.

La cecità e la sordità verso la vocazione, ricorda ancora l’Autore, è dovuta all’atrofia della nostra intelligenza e del nostro cuore, a quell’autolimitazione della ragione e del cuore alla quale Benedetto XVI fa riferimento nell’Enciclica “Caritas in veritate”.

Nel cercare di descrivere le costanti presenti in ogni vocazione, Stefano Fontana fa riferimento alla dimensione trascendentale di ogni persona, ciò che gli è più proprio, la sua irripetibile unicità, la profondità del suo essere, la sua verità, la sua bontà, la sua bellezza.

Nella vocazione, le costanze trascendentali dell’irrompere, dell’attendere, dell’eccedere e del purificare, sono, come i trascendentali dell’essere, reciproche e convertibili l’una nell’altra.

Se l’irrompere è quindi una dimensione fondamentale della vocazione, esso non richiama necessariamente il rumore, quale fulmine a ciel sereno (irruzione nella normalità)come potrebbe essere colto ad esempio nella conversione dirompente di S.Paolo. L’Autore ci rammenta che, molto più plausibilmente, c’è soprattutto l’irrompere della normalità, nella quale le cose e i volti quotidiani ci “parlano” come mai avevano fatto in altri momenti. Dall’accadere previsto e programmato si passa all’avvenimento in cui si rivela gratuitamente un senso, in cui ciò che era passivamente registrato ed obnubilato diventa colmo di luce e di significato. L’attendere, altra dimensione della vocazione, mostra noi a noi stessi, in quanto ci libera dall’angoscia esistenziale di dover essere noi a produrre il senso, di dover essere noi gli artefici della nostra libertà. Nell’attendere e nel saper attendere si gioca la nostra identità e la nostra vera libertà, in quanto la vocazione ha un nesso indissolubile tra il nostro essere e il nostro dover essere (attesa di un compimento). L’Autore ribadisce, a ragione, che se l’uomo fosse solo il frutto di una evoluzione materiale non attenderebbe, ma piuttosto tenderebbe a soddisfare solo i bisogni in una prospettiva esclusivamente deterministica. Nella persona umana invece non si hanno solo bisogni, ma tutte le dimensioni dell’umanità si sviluppano all’interno di una dinamica di attesa e vocazione.

Nel riconoscere quanto ci viene dato di più, in eccedenza, sta anche la dimensione vocazionale dell’amore: l’amore del Creatore e l’amore delle creature. Questo basilare concetto può essere sintetizzato in una felice espressione dell’Autore: “Ognuno che sperimenti l’amore sa bene di non meritarlo”.

Senza una teologia della creazione, dice Stefano Fontana, diventa difficile motivare la presenza pubblica della fede cristiana, cogliere nel giusto senso la legge naturale, vedere nel matrimonio e nella famiglia l’origine e il fondamento della società.

Prendendo lo spunto da una lungimirante frase del pensatore colombiano Nicolas Gomez Davila (1913-1994): “Quando le cose ci sembrano essere solo quel che sembrano, presto ci sembreranno essere ancor meno”, Fontana ribadisce l’auspicio che ad un rinnovato interesse per la metafisica e per la teologia della creazione si accompagni la necessaria “purificazione”dagli interessi di parte e dalle chiusure egoistiche, in quanto ogni cosa, che vuole essere se stessa, non ci riesce da sola, ma ha bisogno di una vocazione che le indichi la sua verità. La volontà, in altre parole, deve essere purificata dalla ragione per essere pienamente volontà.

Questa circolarità di attesa e vocazione viene ripresa e argomentata in modo efficace dall’Autore nella seconda parte del Saggio (Epistemologia della vocazione), quando viene contrapposta allo schema degli scalini, caratteristico dell’opera del filosofo francese Jacques Maritain (1882-1973): “Distinguere per unire: i gradi del sapere”. Quei gradi del sapere diventano, nell’intuizione illuminante dell’Autore, i gradini di una scala, nella quale tra i piani si dà un rapporto di diversità dentro una unità, dando però precedenza e valore alla diversità. Il limite dello schema degli scalini di maritainiana memoria starebbe nel concepire l’unità del sapere attraverso degli scalini sui quali si accumulano i saperi l’uno dopo l’altro. L’Autore fa notare la debolezza di questo modello, nel quale la metafisica, pur salvaguardata, verrebbe posta alla fine della scala dei saperi. In realtà la metafisica va posta all’inizio del sapere, prima delle stesse scienze. Con la metafisica, all’origine della conoscenza c’è l’intuizione intellettiva dell’essere, ciò che permette la successiva ricerca scientifica. Al contrario del modello della scala, il modello della circolarità non distingue per unire, ma unisce per distinguere; in questo modo rende maggiormente conto, come ben precisa Fontana, dei legami unitari e preserva l’integralità della persona umana. Anche la fede, come la metafisica, non sta alla fine, ma all’inizio della conoscenza della realtà. Si può comprendere così che l’esito implicito nello schema degli scalini è all’origine del secolarismo, in quanto il processo di autonomia non ha limiti, passando dall’autonomia verso la religione all’autonomia verso la stessa ragione, confluendo nel nichilismo.

L’Autore, anche con l’ausilio di importanti filosofi come ad esempio Augusto Del Noce (1910-1989), puntualizza efficacemente come lo schema della distinzione dei piani non possa essere sostenibile, in quanto il considerare che il piano naturale funzioni da solo equivale a considerare Dio come superfluo.

Senza il riferimento al bene comune sopranaturale, afferma Fontana, anche quello naturale viene perduto.

Non solo, eliminando il legame organico con il sopranaturale, il naturale si involve nell’innaturale, nella negazione della vera natura dell’uomo.

La proposta forte e coerente dell’Autore sta nel tutelare la circolarità tra fede e ragione e la priorità della fede, intendendo la stessa fede come la vocazione della ragione; facendo propria l’espressione di Benedetto XVI : “La fede purifica la ragione”, Fontana ribadisce che ciò che rende vera la ragione è la sua apertura ad essere animata dalla fede, la sua attesa della fede. Nella prospettiva di una nuova apologetica, i preambula fidei rappresentano così il fondamento della ragionevolezza della fede ed esprimono una attesa che diventa , sempre con l’Autore, motivo di esame della verità della vocazione.

Nella continuità del Magistero della Chiesa e nella sua dottrina sociale e teologica, l’annuncio cristiano è risposta autentica alle attese della natura umana, poiché l’uomo è capax Dei, capace di infinito.

Tuttavia il peccato originale ne ha indebolito (ma non corrotta) la natura; quindi il cristiano sa che la natura umana va “purificata”. Senza Dio però la purificazione non può avvenire e quando Dio scompare dall’orizzonte dell’uomo, anche la capacità di riconoscere l’ordine naturale ed il bene tendono a svanire.

Riprendendo una frase del teologo Henry de Lubac (1886-1991): “L’uomo riesce a costruire il suo mondo senza Dio, ma in questo caso non può che costruirlo contro l’uomo”, l’Autore ci mostra che l’esito del razionalismo e della modernità, ponendo l’autosufficienza della ragione, ha rifiutato il peccato originale con delle conseguenze disastrose. La prima conseguenza di questa negazione è l’impossibilità della vocazione ed il venir meno del rapporto di vocazione tra natura e cultura. Riaffiora così la domanda che, posta all’inizio, percorre trasversalmente tutto il saggio: “Qual è il posto di Dio nel mondo ?”.

Staccata dalla fede cristiana, conclude l’Autore, la ragione finisce per perdere fiducia in se stessa e si converte inevitabilmente in cultura della morte, annullando il ruolo pubblico e visibile che il cristianesimo dovrebbe avere.

La stessa accentuazione frenetica dei diritti si ha quando le cose e le persone vengono ridotte a misura del proprio soddisfacimento egoistico. Godere di un diritto significa così avere a disposizione, ossia avere o poter fare qualcosa.

Riprendendo la dialettica di attesa e vocazione invece i diritti non sono solo espressione di bisogni, ma appunto di attese; i doveri sono già presente nei diritti e non sono qualcosa che si aggiungano dopo i diritti (ritorna qui il modello debole della scala già evocato).

Lo schema della circolarità di attesa e vocazione ci spiega inoltre che la responsabilità precede la libertà, essendo la responsabilità la consapevolezza della vocazione.

Solo in questo modo si può aprire la strada a Dio nel mondo.

Questo brillante saggio di Stefano Fontana, ricco di spunti e di intuizioni davvero preziosi, meriterebbe che fosse ampiamente discusso ed approfondito in diverse sedi perché, a mio modesto avviso, potrebbe offrire l’opportunità di un serio esame di coscienza nella prospettiva dell’edificazione di una società cristiana che risponda pienamente alla vera natura dell’uomo.

Stefano Fontana – PAROLA E COMUNITA’ POLITICA – Saggio su vocazione e attesa – Edizioni Cantagalli, Siena, 2010

per acquisti on line del libro, vedi anche il Sito delle Edizioni Cantagalli


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