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CELEBRAZIONI DEL 5 MAGGIO - LA REALTA' STORICA


Figure della mala unità, il tricolore di Reggio Emilia e l'inno di Mameli


di Piero Vassallo


Sono sconcertanti gli strilli patriottici alzati dagli ex comunisti, scandalizzati dal ministro Calderoli, colpevole di aver messo in dubbio la sua presenza alla celebrazione dell'impresa garibaldina. Gli strilli si levano, infatti, da esponenti di quella sinistra sedicente italiana, che, in anni non lontani, disprezzava l'idea di patria con tale intensità da tributare un applauso squillante ai carri armati sovietici (ossia internazionalisti) lanciati dal buon Kruscev contro i patrioti ungheresi.

Oltre tutto le affermazioni di Calderoli sull'inopportunità della celebrazione del 5 maggio sono conformi al giudizio unanime degli storici, che hanno studiato seriamente il cammino della mala unità avviato da Cavour e da Garibaldi nel 1860.

Documenti inoppugnabili raccolti da Luciano Salera dopo lunghi anni di sagace ricerca, ad esempio, dimostrano che gli aggressori del Regno di Napoli erano ispirati da motivi spregevoli ed agivano di conseguenza [1]. Non per caso, risultato e coronamento della spedizione dei mille in camicia da macellaio fu il furto delle ingenti riserve auree accumulate dal Regno di Napoli grazie a un'oculata e onesta amministrazione del denaro pubblico.

I motivi dell’aggressione al Regno di Napoli, peraltro, si leggono a chiare lettere nei disastrati bilanci del Regno sardo. Al proposito Luciano Salera ha rammentato: “Poiché le loro casse facevano acqua da tutte le parti e c’era assoluta necessità di danaro, tanto danaro, fresco e liquido bisognava unire l’Italia sotto la dinastia sabauda ridotta all’elemosina. Ferdinando che, al contrario, aveva un’economia solida ed una riserva aurea da far invidia a mezza Europa, non poteva immaginare quale lavorio intorno al suo Regno si cominciasse ad intrecciare, sott’acqua, tra Francia, Inghilterra, Piemonte ed esponenti delle logge massoniche, nazionali ed internazionali che tenevano le fila manovrando i pupi di quella che si preannunciava come una tragica rappresentazione”.

L'onestà intellettuale, dunque, suggerisce la prudente distinzione dell'unità d'Italia dall'avvenimento unificazione, impropriamente detto risorgimentale: impresa che non fu né onesta né finalizzata all'affermazione e al trionfo degli ideali condivisi dalla maggioranza degli italiani.

Al contrario: l'impresa risorgimentale fu il proseguimento della discesa in Italia dei saccheggiatori giacobini e della loro rivoluzionaria aspirazione a devastare la Chiesa cattolica, a perseguitare la maggioranza cattolica e a sequestra i beni che l'autorità ecclesiastica usava per assistere gli indigenti e i malati.

L'esemplare biografia del Beato Francesco Faà di Bruno dimostra che i rappresentanti politici del Piemonte cattolico furono emarginati dai politicanti risorgimentali, membri di un'oligarchia arrogante e truffaldina, che concedeva il diritto di voto solo all'un per cento dei sudditi, ossia ai massoni, ai beneficiari del saccheggio dei beni ecclesiastici, ai burocrati e ai caudatari di casa Savoia.

L'amor di patria non può essere associato alla bolsa retorica intorno all'ideologia giacobina impropriamente detta risorgimentale, che fu imposta agli italiani da una minoranza di cialtroni. In altre parole: non si può scambiare l'unità d'Italia con l'Italia spiritualmente disunita dai c. d. padri della patria.

Purtroppo in Italia non mancano, a sinistra, e a destra gli amanti della defunta ideologia e i cultori del falso storico. Costoro promuovono la sistematica confusione tra unità e mala unità, tra amor di patria e ideologia massonica.

Il primo esempio di confusione è dato dai patriottardi che associano l'amore per la bandiera, simbolo dell'unità, con il culto (feticistico, massonico, strutturalmente anticristiano) del tricolore conservato nel museo di Reggio Emilia: vessillo innalzato da un pugno di volgari mercenari, che dichiaravano, senza vergogna, l'obbedienza alle leggi imposte dai cleptomani giacobini.

Il secondo esempio è l'attaccamento morboso all'inno di Mameli, scadente filastrocca accompagnata da una irritante musichetta. Roba del genere non è adatta a rappresentare i sentimenti degli italiani e a valorizzare lo loro storia.

Men che meno può esser detto “poeta della patria” il Mameli, un esaltato che si mise al seguito del lugubre Mazzini.

Al Mameli si devono i versi sgangherati e grotteschi del componimento scritto per declinare la passione anti - italiana che, nel 1849, agitava i protagonisti della repubblica romana: “Se il papa è andato via / buon viaggio e così sia / non morremo d'affanno / perché fuggì un tiranno / viva l'Italia e il popolo / e il papa che va via!”

Quando si leggono i versi da taverna e da lupanare che infiammarono il cuore dei risorgimentali, sembra non infondato il sospetto che i militanti nella sgangherata fazione patriottarda festante a sinistra e a destra sotto l'icona del Garibaldi, anziché l'attuale unità italiana intendano esaltare le infami, sanguinarie imprese, compiute in un passato da dimenticare: le attività terroristiche organizzate dal Mazzini, la guerra combattuta in Crimea contro una nazione cristiana minacciata dai turchi, la guerra civile combattuta dai guerriglieri del Garibaldi, e la vile aggressione a Pio IX compiuta dal fellone Vittorio Emanuele II.

L'amor di patria non può essere rovesciato nel culto tributato agli ideali sorpassati e smentiti dall'esperienza storica e ai protagonisti delle più nere pagine del nostro passato.

L'unità è un bene prezioso e sacro, che si può difendere solo nella fedeltà alle radici cristiane della nazione e nel rispetto delle storiche autonomie, l'importanza e l'attualità delle quali fu rivendicata da illustri pensatori del Novecento, quali Francisco Elias de Tejada, Pedro Galvao de Sousa e Silvio Vitale.

Ora rivendicare il principio delle autonomie regionali significa chiudere la parentesi del centralismo amministrativo, ultimo residuo della cultura totalitaria che ha infestato l'età moderna a partire dalla rivoluzione giacobina e napoleonica. Di qui la perfetta legittimità delle tesi formulate dagli esponenti della Lega e testimoniate dall'on. Calderoli.

La festa dell'unità d'Italia, in definitiva non può e non deve essere celebrata il 5 maggio – data d'inizio di una sciagurata e odiosa guerra civile. Come sostiene un qualificato protagonista della riscossa cristiana, Emilio Artiglieri, la data ideale per la celebrazione dell'unità d'Italia è l'11 febbraio, ricorrenza della conciliazione del 1929, che ha restituito l'Italia a Cristo e la pace agli italiani.

La rievocazione del c. d. risorgimento divide gli italiani, la memoria della conciliazione li unisce nel ricordo dell'unità ristabilita nella fede cristiana.

Il più autorevole testimone e il più imparziale giudice della vita italiana di quel tempo, Pio XII, nell’enciclica ”Summi Pontificatus” pubblicata il 20 ottobre del 1939 poteva affermare, senza tema di smentita, che “la diletta Italia mercé la provvidenziale opera dei Patti lateranensi” occupava un posto d’onore fra gli stati con le quali la Santa Sede si trovava in amichevoli relazioni: “Da quei Patti ebbe felice inizio, come aurora di tranquilla e fraterna unione di animi innanzi ai sacri altari e nel consorzio civile, la pace di Cristo restituita all’Italia”.


NOTE:

[1] Cfr.: “Garibaldi, Fauché e i predatori del Regno del Sud”, Edizioni Controcorrente, Napoli, 2008.


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