IL BLOG DI RISCOSSA CRISTIANA

LA VITA QUOTIDIANA NELL’UNIONE SOVIETICA ALL’EPOCA DI KRUSČEV










di Vardui Kalpackian

«Простые советские люди

Повсюду творят чудеса»

«Nell’Unione Sovietica la gente comune compie i miracoli quotidianamente»

Uno degli slogan dell’epoca del governo di N.S. Krusčev

La storia della Russia del periodo dal 1917 fino alla fine degli anni 1980 circa è la storia del primo (e per un certo lasso di tempo anche l’unico) stato a regime socialista del mondo.

E l’epoca del governo di Nikita Sergeevič Krusčev (grosso modo dalla morte di Stalin nel febbraio del 1953 al 14 ottobre del 1964) può essere definita come quella del socialismo autentico, pienamente raggiunto e realizzato, e, come il regime stesso proclamava, anche la base della fase storica successiva, il Comunismo, la cui “costruzione” doveva essere terminata per il 1980. Nei libri scolastici per la disciplina “Storia dell’URSS” della scuola elementare d’obbligo degli anni 1960 l’ultimo capitolo, quello dedicato al periodo corrente, si intitolava “Il popolo sovietico costruisce il Comunismo”.

In tutti i periodi precedenti della storia dell’URSS il socialismo non poteva, si capisce, realizzarsi in pieno perché doveva lottare per la propria sopravvivenza: durante la guerra civile 1917-1919 contro la “borghesia” russa e mondiale, poi nella lotta continua contro i nemici interni, detti “nemici del popolo”, fino alla fine degli anni 1930, e poi contro gli invasori nazisti. Dopo la morte di Stalin è stato ammesso, con molta cautela, che il periodo staliniano non è stato socialismo vero, perché il leader ha permesso la formazione del fenomeno del “culto della propria personalità”. Nonostante queste ammissioni, tutti gli orrori della Rivoluzione d’Ottobre, della guerra civile, della “Collettivizzazione” e della “Industrializzazione”, l’esilio di popoli interi in Siberia, il sistema di lavoro forzato, sia dentro i campi di concentramento che fuori, continuavano a essere “giustificati” come mezzi indispensabili per poter costruire il socialismo: “prima in un singolo paese, e poi in tutto il mondo”.

Andiamo a vedere come era la vita di quei cittadini dell’URSS a cui il destino riservò la migliore e la più vivibile fetta del socialismo reale, per la cui costruzione sono state sacrificate le vite di due generazioni precedenti di sovietici. Nel periodo in questione il territorio dell’URSS era di 22.402.200 chilometri quadrati (pari a un sesto del terreno abitato del globo terrestre), popolato da 255.700.000 abitanti di 139 nazionalità diverse e per il 99,9% chiuso agli stranieri.

La casa. Alla fine della Seconda guerra mondiale (in URSS chiamata ufficialmente la “Grande guerra patriottica”) inizia la ricostruzione frenetica dei siti industriali (con l’uso massiccio della manodopera dei lager: questa volta i detenuti sovietici erano affiancati dai prigionieri di guerra, tedeschi e italiani, e da quelli dei paesi dell’occupazione sovietica - Austria, Cecoslovacchia, Polonia ecc.). La situazione delle abitazioni restava nel 1953 ancora quella del 1945, anche nella capitale.

Alla fine della guerra Mosca è invasa da una fiumana di gente che contava di restarci a vivere: i precedenti 30 anni della vita sovietica hanno insegnato che nella capitale si poteva qualche volta comprare qualcosa da mangiare e di che vestirsi. Dal 1945 inizia una grande migrazione: dalle zone oltre gli Urali sono stati riportati nella regione europea dell’URSS gli stabilimenti evacuati e sono arrivate tante, tante persone. Il prezioso certificato di residenza (“propiska”) a Mosca era accessibile più volte anche ai non moscoviti, perché c’era un gran caos con la documentazione: l’evacuazione forzata e gli arresti di massa dei tragici mesi di giugno-dicembre del 1941 non sono stati documentati, e nei bombardamenti aerei sono stati distrutti sia le case che gli archivi. Le cifre veritiere della quantità di abitanti a Mosca sia nel 1941 che nel 1945 e 1953 sono sconosciute, come lo sono quelle delle perdite umane nell’URSS per tutto il periodo sovietico. E a Mosca, ancora di più che in tutto il resto del territorio dell’URSS, il problema Numero Uno era la catastrofica insufficienza delle abitazioni. Famiglie intere vivevano nelle cantine, sui tetti, nei vani dell’ascensore (dove, su ogni piano, era poste tavole di legno che fungevano da pavimento), in baracche di legno senza acqua e senza servizi. I più fortunati dei moscoviti -“comuni sovietici” vivevano nei cosiddetti “appartamenti in coabitazione” (“комунальная квартира” /”komunalnaja kvartira”): negli appartamenti delle case di costruzione pre-sovietica c’era un nucleo familiare per ogni stanza, con la cucina e i servizi (dove questi non erano ridotti ad un unico rubinetto di acqua fredda in cucina) di uso comune. Le abitazioni del genere appaiono nei recenti film russi “La fredda estate del 1953”, “Il cerchio ristretto” e gli altri.

Questo è al livello privato, dei cittadini. Al livello di Stato, invece, i cittadini comuni sì che avevano di che essere orgogliosi. Nel 1953 è stata inaugurata solennemente la nuova sede dell’ Università Statale di Mosca sul punto più alto della città – le Colline Lenin (ex Colli dei Passeri), dove tutti i villaggi e siti storici sono stati per questo rasi al suolo. Inoltre, è stata completata la costruzione anche dei grattacieli sugli incroci delle maggiori vie di Mosca, previsti dal piano della Ricostruzione Generale di Mosca, promosso da Stalin nel 1935.

Nel 1953 (e poi anche nel 1957) il Comitato Centrale del Partito Comunista dell’URSS e il Consiglio dei Ministri decretano la delibera «Direttiva per lo sviluppo della costruzione di edifici ad uso abitativo nell’URSS».

Questo dà inizio ad una nuova “guerra”: viene ufficialmente dichiarata la lotta contro gli ”eccessi architettonici” (in lingua sovietica – “архитектурные излишества”/”arkhitekturnye izlishestva”. In Lingua Russa questa espressione non è mai esistita) dei quali è accusato Stalin, e viene annunciato il nuovo principio fondamentale: “economia dell’edilizia” (“экономность строительства” / “ekonomnost’ stroitel’stva” ), legalizzato con il Decreto del governo del 1955 "Sui metodi dell’ulteriore industrializzazione, sul miglioramento della qualità e l’abbassamento dei costi dell’edilizia”. Per capire i cambiamenti nella politica edilizia basta paragonare le stazioni della Metropolitana di Mosca costruite prima e dopo la guerra: lo spazio pubblico dell’epoca staliniana è ricco di marmi, mosaici, sculture, stucchi e rilievi in bronzo dorato e adeguato patos imperiale, le stazioni dell’epoca di Krusčev, denominate dal folclore “ascensore orizzontale”, hanno, nella versione più elaborata, solo le piastrelle e perdono le “navate laterali” (la sala ora è tutt’uno con le zone dei binari).

Il programma di edilizia abitativa promosso dal governo Krusčev, il quale ordinò di abolire l’Accademia di Architettura voluta da Stalin in persona, e sostituirla con una modesta “Direzione per l’Edilizia”, prevede la costruzione di una enorme quantità di “abitazioni a dimensione ridotta” (“малогабаритные квартиры”/ “malogabaritnye kvartiry”) ovunque in tutte le città dell’URSS. A Mosca, al posto di storici villaggi suburbani come Cheremushki, Zuzinio, Tushino, Tekstilsciki e tanti altri, eliminati insieme ai resti di residenze nobili di campagna, vecchie fabbriche storiche, monasteri e chiese, cimiteri, parchi e boschi, sono sorti gli omonimi quartieri interi di tali abitazioni, subito soprannominati dal folclore “krusčioby” (il misto del nome del leader e del termine russo per “favelas” – “truscioby” /anche questo era uno dei termini molto usati dalla propaganda sovietica –“трущобы капитализма”/”favelas di capitalismo” ).

casa in pannelli prefabbricati

Sono condomini di quattro piani, di pannelli prefabbricati, sullo stesso progetto. Più avanti se ne costruiscono anche di otto piani e “modelli di lusso” – di mattoni. L’altezza del soffitto è di 2,5 metri, la superficie totale è di 29 metri quadri (versione “lusso” era di 42 m.q.). C’è la cucina, di 5 metri quadri, una stanza, un’altra più piccola e una specie di guardaroba – un minuscolo spazio senza finestra, soprannominato dai sovietici “camera per la suocera”. Nel bagno di 4 m.q. (senza finestra pure quello) c’è una “vasca a sedere”, un water e un lavandino. C’è anche un corridoio «non largo abbastanza per passare a fianco del proprio gatto» (come testimonia chi ci abitò). Per quel che è, la “krusčioba” è stata per molte famiglie la prima casa con la cucina e il bagno, loro e di nessun’altro. Questo, per un po’ di tempo, li conciliava con la necessità di fare dei lunghissimi viaggi due volte al giorno nei trasporti superaffollati, ogni giorno, per raggiungere il posto di lavoro (portando, al ritorno, anche le pesanti borse della spesa, perché oltre alle case in questi “quartieri residenziali” non c’era nessun’altra struttura, di nessun genere). Il telefono in questi appartamenti non c’era, solo le cabine pubbliche, con una costante lunga fila di persone davanti. Non molti avevano le forze di fare il viaggio “in città” anche di domenica (il sabato era giorno lavorativo) per visitare un museo, o fare una visita. E’ stato ufficialmente dichiarato che le “krusčiobe” a 4 piani sono una “soluzione provvisoria”, e dopo 25 anni saranno rase al suolo, perché gli abitanti avranno già delle case vere e proprie. Non so se qualcuno dei residenti di “kruscioba” credeva a questa tesi, ma dal 1955 non hanno mai smesso di costruirle, e per il 1985 sono stati edificati circa 300 milioni di metri quadri di spazi abitativi di questo tipo.[1]

Alcune testimonianze da siti internet russi:

- «Passai nella “krusčioba” 25 anni della mia vita fermamente convinta che gli inventori di quel cosiddetto “angolo personale per ogni famiglia” non sono altro che i “nemici del popolo” veri e propri. Queste case erano la versione “dolce” del lager. Parlavo con la mia vicina attraverso il muro, senza uscire dall’appartamento».

- « "Malogabaritka"! /appartamento “di dimensioni ridotte”/. Non è solo un termine: è una forma di esistenza. E’ una diagnosi. E’ una tana per topi. Il soffitto come il coperchio della bara, la cucina che ti pigia sulle spalle e sui fianchi, il corridoio che non si può percorrere che “di profilo” e le stanzette-scatolette. I tappetini sui nostri muri non sono che mezzi di isolamento di suono e di calore. Le scale dove pure la bara passa solo se portata verticalmente. Il sogno di avere il secondo figlio dello stesso sesso del primo, perché due letti in una stanza non ci stanno».

-Le barzellette popolari dell’epoca (quando come unico metodo di creatività artistica si propagava il “Realismo Socialista: riflesso fedele della vita”): «”Come è stato applicato in architettura il metodo del Realismo Socialista?” – E’ stata inventata la casa “krusčioba”: quando fuori fa freddo o caldo dentro fa lo stesso”».

- Altri esempi del folclore: «Lo scopo principale del progetto di “krusčioba” era quello di unire il soffitto e il pavimento». «Hanno inventato un modello del vaso da notte per “krusčioba”: quello con il manico dentro».

Il leader sovietico teneva molto alla propria politica edilizia, e se ne occupò fino alla fine della sua permanenza al potere: il 13 maggio del 1963 Krusčev fece un giro ufficiale della capitale per visitare i quartieri in costruzione, e il 30 luglio visitò la mostra dei progetti di nuova costruzione edilizia nelle zone ancora “libere” delle periferie di Mosca.

Il lavoro. Durante i primi anni dopo la morte di Stalin le rigidissime condizioni di lavoro nell’URSS (parliamo della “zona” fuori GULAG) si attenuarono leggermente. Il 25 aprile del 1956 il Soviet Supremo emana il Decreto che abolisce “le responsabilità penali /si intende la reclusione – V.K./ per abbandono del proprio posto di lavoro senza autorizzazione”.

Però il regime lavorativo restava severo, e il posto di lavoro nel paese dove tutto apparteneva allo Stato era tuttora il padrone e il giudice di ogni singolo cittadino. Il lavoratore percepiva il suo salario due volte al mese (e a calcolare le tasse e a toglierle dalla busta paga ci pensava la ragioneria dello stabilimento, o ufficio), inoltre il “triangolo” (“treugolnik”, alias i 3 capi di ogni esercizio statale: Direttore, Capo della sezione del PCUS e Capo della sezione dei Sindacati) decideva quando uno andava in ferie, e a chi concedere il posto nei sanatori e nelle case statali di ricreazione (cosa non di poco conto, visto che trovare dove dormire e mangiare dove uno non aveva né amici né parenti era un’impresa impossibile). Sempre il “posto di lavoro” distribuiva gli alloggi e gli appartamenti nelle case di nuova costruzione, secondo un elenco compilato, dove i primi posti sarebbero riservati ai più bisognosi. C’erano “elenchi-fila” anche per i posti nell’asilo nido, necessari per ogni famiglia, visto che entrambi i genitori erano “lavoratori”: quasi tutti i bambini da 3 a 7 anni di età si svegliavano molto presto e partivano, con i trasporti pubblici, con i genitori, che non potevano arrivare tardi al lavoro, per raggiungere l’asilo che poteva trovarsi anche a distanza di una o più ore di viaggio, sia da casa che dal posto di lavoro di uno dei genitori. C’erano elenchi pure per le attività extrascolastiche, per i biglietti dei teatri, per l’abbonamento ai periodici tipo “Vita e scienza”, “Geografia” (i pochi non proprio politici; abbonarsi a quelli come il quotidiano “Pravda” era obbligatorio per la maggior parte dei lavoratori). Verso la metà degli anni 1950 appare la possibilità di “iscriversi in fila” per COMPRARE un frigorifero, una lavatrice, un aspirapolvere, oppure addirittura una TV (l’attesa poteva durare da tre a dieci anni)[2].

Nessuno, se non era uno studente o un pensionato, poteva restare senza un posto di lavoro: uno così sarebbe stato fuorilegge e di lui si sarebbe immediatamente interessata la polizia del distretto. I sovietici erano considerati dal proprio governo non “cittadini”, ma “lavoratori”: tutti gli slogan stampati nella “Pravda” alla vigilia di festività politiche, come l’anniversario della Rivoluzione, o Primo maggio, iniziavano con questo appellativo, per esempio: “Lavoratori dell’Unione Sovietica! Rafforzate le vostre file dei combattenti per la pace nel mondo!”.[3]

Gli stipendi medi dei lavoratori sovietici erano molto bassi. Anche se la scuola, l’asilo e l’assistenza medica erano gratuiti, serviva non meno di un anno di risparmi per comprare, per esempio, un capotto da adulto. Nel 1956 viene emesso il Decreto del Soviet Supremo “Sull’innalzamento del livello del minimo non tassabile degli stipendi dei lavoratori” (l’8 agosto) e quello “Sull’aumento degli stipendi dei lavoratori di basso guadagno dal 1 gennaio 1957” (30 dicembre). Nel 1957 (il 23 marzo) segue il Decreto che annuncia “La riduzione delle tasse sugli stipendi inferiori ai 450 rubli mensili” (quando un cappotto costava 1500-2000 rubli). Peccato però che pochi giorni dopo (il 19 aprile del 1957) segue un nuovo Decreto, che annuncia l’emissione delle obbligazioni di Stato, “che saranno distribuite tra i lavoratori”, che in realtà obbligava i lavoratori a comprarle. Così, presso ogni “posto di lavoro” vennero compilati anche gli elenchi per la distribuzione, a turno, di queste obbligazioni tra i lavoratori, che le percepivano il giorno della paga al posto di una parte del loro già magro salario. Una barzelletta dell’epoca (con la premessa che in Unione Sovietica tutte le abitazioni erano invase da scarafaggi): «”Che me ne faccio delle mie obbligazioni?” – “Puoi, per esempio, usarle come carta da parati, con anche la conseguenza che tutti gli scarafaggi di casa tua moriranno dalle risate”». E dal 1961 TUTTI i prezzi vennero raddoppiati in seguito alla riforma monetaria:10 rubli “vecchi” diventavano 1 rublo “nuovo” (il Decreto del 4 maggio del 1960).

E non passava giorno che la radio, l’onnipresente e sempre parlante radio sovietica, non segnalasse “la crescita progressiva del benessere dei lavoratori sovietici”.[4]

Ma il “posto di lavoro” (o di studio) distribuiva non solo i diritti ai “beni materiali”, ma anche i “doveri sociali” (ai quali non c’era modo di sottrarsi), come, per esempio, lo sporadico lavoro anche di domenica, la bonifica e la pulizia dell’ufficio/stabilimento e il suo territorio (“subbotnik”), la partecipazione alle “sfilate del popolo” durante le feste politiche, anche se pioveva a dirotto (questa prendeva tutto il giorno festivo, dalle 7 del mattina). Inoltre, il Decreto del PCUS e del Soviet Supremo del 2 febbraio del 1959 aggiunse a questi anche l’obbligo dei lavoratori “di contribuire alla tutela dell’ordine sociale nel paese”, il che significava che i civili, dopo il lavoro, alle spese delle proprie serate libere, dovevano pattugliare le strade. Quando la situazione divenne critica, i lavoratori e gli studenti vennero mandati anche in campagna per raccogliere il grano, il cotone, le patate ecc. (il Decreto del 12 luglio del 1962 annunciava che “alcune delle Repubbliche hanno chiesto di rendere partecipi i lavoratori e gli studenti al lavoro agricolo nei kolkhoz e nei sovkhoz”). L’obbligo per i lavoratori non agricoli, gli studenti e gli scolari di lavorare periodicamente nell’agricoltura sovietica cessò solo con la fine dello stesso URSS.

Sul “posto di lavoro” e di studio uno poteva subire anche il processo – il cosiddetto “Giudizio dei compagni” – per il suo cattivo lavoro, per alcolismo, o per la moralità deplorevole (ad esempio infedeltà coniugale).

La vita delle donne. L’unica rivista femminile sovietica si chiamava “Rabotniza” (“lavoratore femmina”). Una donna che non lavorava era l’oggetto della satira ufficiale, che pubblicavano in uno speciale periodico: “Il Coccodrillo”. Il passaporto sovietico (rilasciato ai cittadini senza problemi con la giustizia, e non kolkhoziani che non avevano all’epoca il diritto di girare liberamente nel paese) conteneva, oltre al nome, il cognome, la residenza ecc., anche la voce “Posizione sociale”, con la scelta tra: lavoratore, studente, invalido, pensionato oppure “ijdivenka” (“mantenuta”, solo al femminile, perché gli uomini non invalidi non potevano non lavorare e avere il passaporto): per le donne che non lavoravano (anche se per ragione di salute debole, ma non da invalidità).

Tornata a casa dal lavoro (alle 18, alle 19 o oltre, uscita non oltre le 8 del mattino) la donna si dedicava al lavoro domestico: scaldava il pasto serale, unico pasto comune della famiglia, poi sparecchiava e preparava quello per domani, faceva il bucato a mano, stirava con il ferro da stiro di ghisa, cuciva ecc. Le pulizie si facevano di domenica. Le poche fortunate avevano a disposizione macchine da cucire risalente all’epoca pre-rivoluzionaria, o quelle tedesche trofei di guerra. La produzione nazionale degli elettrodomestici e la loro distribuzione iniziò verso la fine degli anni 1950, e in una quantità molto ridotta. Così da frigorifero fungeva (per qualche mese all’anno, secondo il clima della zona) lo spazio tra i vetri doppi delle finestre – questo nelle case di costruzione ante 1917, invece nelle “krusčioba” era già previsto il così soprannominato “frigorifero modello “Krusčev””: era uno spazio sotto la finestra della cucina dove il muro era di spessore molto ridotto in modo da creare “un armadietto” con la temperatura esterna.

La vita della donna sovietica comune è rappresentata, per esempio, nel racconto “Una settimana come tutte”, di Natalia Baranskaja (pubblicato nel 1969, № 11, nella rivista “Novij mir” /«Новый мир»).

La donna era anche quella che “portava i viveri” – dopo il lavoro faceva anche le file nei negozi alimentari, poi trasportava tutto nei mezzi pubblici, fino a casa (gli uomini potevano spesso essere trattenuti al lavoro anche fino alla tarda sera). Le donne-contadine venivano anche inviate dalle loro famiglie in città, più di una volta all’anno, per procurare la merce indispensabile. A Mosca si vedevano spesso i gruppetti di donne contadine con sulle spalle dei sacchi enormi e pesantissimi.

I bambini. Testimonia il folclore, con questa barzelletta: «La sera i genitori lavano il bambino prima di metterlo a letto e si accorgono che hanno portato a casa dall’asilo un bambino non loro. “Ma che importa, - dicono, - tanto domani lo dovevamo riportare là di nuovo”». La famiglia sovietica non sopravviveva se i genitori non lavoravano entrambi. Nel 1960 il governo, con il Decreto del 15 febbraio, istituì presso le scuole elementari e medie dei gruppi “dopo scuola”, ma la stragrande maggioranza degli scolari, anche quelli più piccoli, continuavano a gestirsi da soli per tutto il pomeriggio.

E’ strano, ma la maggior parte dei sovietici era obbligata a pagare la tassa di “bezdetnost” (questo sostantivo, creato appositamente dall’espressone “senza figli”, è una parola che non è mai esistita nel Dizionario di Lingua Russa): questa tassa per i “senza figli” era pagata da tutti i “lavoratori celibi”, ma anche da ragazze-madri e da madri-vedove, quelle di guerra compreso! E teniamo presente che l’enorme massa di vedove del GULAG, come pure le vedove di guerra, pure quelle degli eroi decorati caduti, pure quelli con figli, non avevano alcun diritto ad una minima pensione. Questa tassa non è stata mai abolita finchè esisteva l’URSS (non so com’è la situazione al giorno d’oggi), è stata solo leggermente abbassata nel 1957. Questi sono gli enigmatici termini dell’apposito Decreto (del 18 dicembre del 1957): la tassa “per essere senza figli” viene ridotta «per gli uomini celibi, per i cittadini dell’URSS soli e di poca famiglia; per gli operai, impiegati e altri lavoratori, aventi figli, come pure per le donne sole e senza figli». Cosa vuol dire “cittadini di poca famiglia” resta per me tuttora un enigma.

Molti adolescenti erano costretti a lavorare come operai, perché le scuole medie dello Stato di “istruzione gratuita” erano a pagamento (fino al 1956, quando il Decreto del 6 giugno abolì il pagamento degli studi nelle scuole medie, superiori e professionali). Ma molti adolescenti, soprattutto i figli maggiori e i figli delle vedove, andavano a lavorare per aiutare la famiglia. Il Decreto del 26 maggio del 1956 ordina di «stabilire la giornata lavorativa di 6 ore per i giovani da 16 a 18 anni di età».

Comunque, anche il programma scolastico della scuola media sovietica prevedeva “l’addestramento lavorativo”, in realtà lavoro presso gli stabilimenti. Il Decreto del Consiglio dei Ministri dell’URSS del 30 maggio del 1961 ordina di «migliorare l’addestramento degli allevi delle scuole medie presso gli stabilimenti produttivi», il che significava, tra l’altro, di aumentare le ore di tale “istruzione”.

Il cibo. Il problema del deficit degli alimenti è stato sempre presente nella realtà sovietica, e l’epoca di Krusčev non è un’eccezione – e ora, nel periodo non-bellico e senza pressante terrore politico, è diventato un problema di primo piano. In più, la “politica agricola” di Krusčev che ordinò di arare le steppe di Kazakhistan per piantarci il grano creò in tutto il paese una situazione davvero critica. Questa trovata personale di Krusčev (“arare le terre vergini”/“podnimat’ tzelinu”) causò l’eliminazione dei pascoli, il che danneggiò gravemente l’allevamento del bestiame da latte e da carne mentre non ha prodotto la raccolta del grano. Nel 1963 scoppiò una crisi vera e propria, il pane nei negozi non si vendeva più e veniva distribuito razionato. Il folclore denunciava il Leader che «ha piantato il grano in Kazakhistan e lo raccolse negli USA», perché il governo sovietico si è visto costretto a comprare il grano dagli USA. Krusčev ordinò inoltre di piantare tantissimo granoturco, ma nemmeno il granoturco risolse il problema alimentare. «Noi supereremo l’America!» dichiarava Krusčev mentre i “comuni sovietici”, per comprare il cibo, dovevano raggiungere qualche grande città. «Che cos’è questo: lungo, verde e odora di salame?», si domandava in una delle barzellette dell’epoca. La risposta fu: «E’ il treno “Mosca-Kaluga/ o Orel”, o qualsiasi altra città sovietica di media grandezza.

Erano fortunati quei non-moscoviti che avevano qualche parentela o conoscenza a Mosca, che poteva ospitarli, quando venivano, più volte all’anno, per comprare l’indispensabile per la vita quotidiana: abbigliamento e calzature, lampadine, inchiostro, lamette di rasoio, ago e filo, sapone, salami, cibo in scatola. Quasi tutte le famiglie di Mosca ospitavano regolarmente le persone venute a questo scopo da tutte le parti dell’URSS. Ecco la barzelletta di quelli anni: «“Quando nell’URSS sarà completata la costruzione del Сomunismo, ogni cittadino sovietico avrà un aereo personale.” – “Scusa, ma a cosa serve l’aereo personale?” – “Per esempio, se sentirai che a Mosca vendono la carne – sali sul tuo aereo, ci vai e ti compri la carne. Poi senti che a Leningrado si può comprare del burro - sali sul tuo aereo, ci vai e ti compri del burro!”».

Beni di largo consumo e i modi in cui si procuravano. Dopo la morte di Stalin nel paese sono stati aperti un po’ più di negozi dei beni di prima necessita, e nella capitale sono stati ripristinati i Grandi Magazzini GUM (unica struttura del genere in tutto il paese), che fino alla morte di Stalin ospitavano uffici, ma anche abitazioni - tutti rimossi già alcuni mesi dopo il suo funerale. (i

Comunque, i beni necessari per la vita quotidiana esistevano in quantità molto ridotta e di tipologia molto limitata. I sovietici avevano tutti gli stessi vestiti, mobili, tazze, valigie, il profumo da donna era “La Mosca Rossa” e l’acqua di colonia “Shipr” ecc., e di ogni oggetto si conosceva bene il prezzo (uguale su tutto il territorio dell’URSS). Molti di questi oggetti degli anni 1950-1960, che tutti ricordano molto bene, sono esposti adesso nel club moscovita “Petrovich”.

La merce d’importazione (cinese, o ceca) era un lusso non accessibile facilmente. La qualità dei prodotti sovietici lasciava molto a desiderare.[5] Ma i prezzi erano molto alti, e per comprare qualsiasi cosa si doveva fare una fila.

Negli anni 1950-1960 nell’Unione Sovietica giravano per strade molte persone vestiti ancora di cappotti militari, risalenti agli anni dell’ultima guerra. Gli abiti per bambini si facevano in casa da quelli smessi dagli adulti, e dai figli maggiori passavano poi a quelli minori. I sovietici cucivano a casa, e spesso solo a mano, pure le calzature e le borse.

Ma il periodo post bellico stimola la voglia di costruirsi intorno una stabile vita quotidiana, il che risveglia nei sovietici l’interesse per le cose destinate all’uso nella quotidiana vita domestica, in linguaggio sovietico – “prodotti della industria leggera”. Però quest’ ultima resta tuttora chiamata “di seconda importanza” in paragone alla ”industria pesante”, e produce poco e male. Nel periodo krusčeviano fiorisce il fenomeno di merce “deficitaria” (“defizit”): alcuni articoli lo sono costantemente (tutta la merce d’importazione, alcune medicine, delicatezze alimentari ed altro), altri di volta in volta (ora i piatti, domani il caffè, d’inverno le arance ecc.), ma il “defizit” è sempre presente. Un’altra barzellettea: «“Cosa c’è di costante nella vita sovietica?” – “Le difficoltà provvisorie”». Naturalmente, nelle strutture commerciali della distribuzione della merce fiorisce la concussione. Dall’altra parte, viene creato un sistema segreto di distribuzione per l’elite (sia nella capitale che nelle regioni) – per i membri dell’”apparato” del potere sovietico, dove potevano attingere anche gli ospiti stranieri illustri come i leader dei partiti comunisti degli altri paesi, socialisti e capitalisti, o “gli intellettuali progressisti” che si prestavano a diffondere nel mondo la propaganda sovietica.

Negli anni 1950 il mercato nero è una enorme e onnipresente struttura autonoma: pure gli stabilimenti della “Industria del Socialismo” non ce l’avrebbero mai fatta a completare il proprio dovere del corrente “Piano quinquennale” senza procurarsi tutto (materia grezza compreso) al mercato nero. La critica del mercato nero e dei suoi fautori era il tema N° 1 nella satira ufficiale, nella letteratura poliziesca e nei film. La legge puniva severamente «l’appropriazione indebita delle proprietà socialiste», fino alla pena capitale per i «furti di dimensioni particolarmente grandi»: il Decreto del Soviet Supremo del 5 maggio del 1961 prescrive «di intensificare la lotta ai crimini particolarmente gravi, i furti delle proprietà statali e pubbliche[6] comprese». Questo Decreto viene presto seguito da quello del 1 luglio del 1961 (“Decreto del Soviet Supremo dell’URSS sul raddoppiamento della pena per la violazione delle regole riguardanti operazioni con la valuta straniera”), che necessita delle spiegazioni: un “sovietico comune” non aveva alcuna possibilità di toccare o vedere “la valuta straniera”, e il possesso della “valuta” era punito con il carcere. L’ elite artistica e quella politica di basso livello, che era sporadicamente mandata all’estero, era pagata a casa, con i buoni dei negozi di distribuzione segreta (dove c’era la merce estera), e la “valuta” era incassata dallo stato. Il Decreto del 1 luglio riguardava i sovietici che si occupavano di “farzà”: il business dell’acquisto (rischioso!) di oggetti (soprattutto abbigliamento) e di “valuta” dai turisti stranieri da rivendere al mercato nero. [7]

Il Socialismo (quello “in costruzione” e quello “reale”) non può sopravvivere senza il mercato nero, e quest’ultimo muore in un paese solo dopo la morte del regime socialista. Negli anni 1950-1960, nelle condizioni di grave mancanza della merce, ogni cittadino, in un modo o in un altro, violava la legge. Quello che non si poteva comprare nei negozi, si trafugava anche dai posti di lavoro: carta da scrivere, lampadine, pellicola fotografica, filo elettrico, materiale edile ecc.

Nella situazione della scarsità di merce liberamente accessibile, il denaro perde il suo valore se non accompagnato dalla possibilità di “procurarsi la merce” – e quando si presenta un’occasione di ottenere la merce (oppure un servizio), il denaro si trova sempre: oltre a te, ci sono intorno tante altre persone con i soldi pronti in attesa dell’ “occasione”, pronti a fare il prestito, perché il favore che fanno sarà sicuramente ricambiato quando l’occasione capiterà a loro. C’era anche l’abitudine di scambiare una merce di “defizit” con un altro “defizit”, perciò le strette case dei sovietici contenevano anche un magazzino, grande o piccolo, della merce di scambio. I lavoratori privilegiati da questo punto di vista erano quelli legati al commercio, o quelli che potevano procurare i servizi o i contatti (e ce n’era una grande varietà tra parrucchiere, addetti ai ristoranti e alberghi, alcuni medici e insegnanti delle scuole superiori legati ai concorsi d’ammissione, e tanti altri). Ecco la testimonianza di una barzelletta: «Al concorso per il posto del capo-magazziniere si sono presentate alcune persone – ma una per una si ritirano, perché si offre un salario piuttosto basso. Uno, invece, chiede di visitare il magazzino e di vedere il genere della merce da trattare, poi accetta il posto seduta stante. “Ma non le abbiamo detto del salario” – E lui: “Ma come, mi pagherete anche!?”».[8]

Sempre negli anni 1950 nasce e cresce velocemente l’industria clandestina, che produce di tutto, spesso copiando (in modo grossolano) i campioni della produzione “capitalista”, e la “società socialista” con tre classi ammesse (operai, kolkhoziani e “intellighenzia” sovietica) si arricchisce anche della classe clandestina dei “milionari segreti”.

La propaganda denuncia e deride coloro che cercano di vestirsi bene, in qualche modo - a modo proprio: è quasi un crimine, e quelli che lo fanno sono dichiarati “stiljaga” (alias – uno con proprio stile, di vestirsi e di vivere). Alle”pattuglie dei lavoratori” (di cui abbiamo parlato prima) viene “raccomandato” di catturare nel buio questi “stiljaghi” , di tagliar loro gli abiti e di rovinare le pettinature, oppure di rasar loro la testa. Molti vengono accompagnati nei distretti di polizia e trattenuti fino all’alba.

Nel 1953 (il 10 ottobre) il governo emana il Decreto che annuncia «l’intensificazione della produzione di articoli industriali di largo consumo» e «il miglioramento della loro qualità», e due giorni dopo – il Decreto che ordina di «intensificare la produzione dei generi alimentari e di migliorare la loro qualità». Nel 1959 (il 12 agosto) un Decreto speciale permette di «vendere a credito agli operai e agli impiegati degli articoli di lunga durata» (forse, si trattava di elettrodomestici – altrimenti non si spiega l’assenza nell’elenco anche dei “kolkhoziani”, alias contadini). Il 16 giugno a Mosca viene riaperta l’”Esposizione delle realizzazioni dell’economia del popolo dell’URSS” (ideata ancora da Stalin in persona) – un parco con delle lussuose fontane e sculture, dove nei padiglioni espositivi, uno per ogni ramo dell’industria e dell’agricoltura, erano presentati i campioni più significativi (eseguiti appositamente per la mostra). La vendita, naturalmente, non era prevista.

Tempo libero, svago e cultura. Il modo più diffuso di divertimento era andare al cinema (in campagna arrivava “l’apparecchio ambulante” con un film). La maggioranza della classe operaia spendeva la domenica ubriacandosi completamente. Si poteva anche passare la giornata al parco pubblico (portandosi dietro qualcosa da mangiare, perché i chioschi nei posti del genere erano troppo pochi, la fila era enorme e il cibo non affidabile). Il modo più diffuso di “uscire” era quello di andare in visita da parenti e amici – soprattutto se c’era anche una TV: un posto pubblico non solo non era rilassante, ma poteva essere addirittura ostile. In più, conveniva evitare di stare in compagnia degli sconosciuti. Nel periodo krusčeviano nasce, tra “intellighenzia”, il fenomeno della cultura della “cucina moscovita” (presto diffusosi in tutto l’enorme paese): la cerchia stretta di amici, in un cucinotto, discute fino a notte inoltrata su tutto, filosofia compreso. Si cantava e c’erano delle letture pubbliche della letteratura proibita (vecchia e nuova, e non necessariamente politica, ma anche filosofica), c’erano anche esposizioni delle opere degli artisti contemporanei, e concerti dei cantautori – l’atmosfera del rapporto autentico tra le persone autentiche dava la carica per affrontare la quotidiana disumanità che attendeva fuori.

Dopo la morte di Stalin i periodici letterari hanno cominciato a pubblicare, anche se per un breve periodo, la letteratura contemporanea nazionale - le opere di Mikhail Zosčenko, Anna Akhmatova, Boris Pasternak. Le tirature erano basse, perciò nasce l’usanza di passare le pubblicazioni tra i conoscenti, il che genera, di lì a poco, la “stampa manoscritta”: le opere letterarie – di scrittori nazionali contemporanei, poeti e filosofi stranieri non marxisti, e tanto altro – si copiano a mano (le macchine da scrivere non erano in vendita, e quelli degli uffici erano sotto controllo), con la carta carbone, in 3-5 copie alla volta, e si distribuiscano tra gli stretti conoscenti. Molto presto il “reato” di produrre, distribuire e possedere le edizioni di “samizdat” (“edizione casalinga”) è diventato proibito e soggetto alla responsabilità penale, fino alla reclusione. Ciononostante il “Samizdat” dà vita anche al periodico “Sintaksis” (le opere di B.Akhmadullina, V.Aksenov, V.Nekrasov, B.Okudjava, Evg. Ginzburg, V.Shalamov), di cui il fondatore e redattore A.Ginzburg fu arrestato e condannato a due anni di lager.

Un grande effetto (forse non esattamente quello previsto dal potere) fece il Festival Moscovita della gioventù del 1957 (28 luglio –11 agosto), organizzato per dimostrare al mondo che l’URSS non è più un paese chiuso. Non si è mai visto da vicino così tanti stranieri, direttamente nelle strade. Ma per l’occasione durante tutto l’anno precedente Mosca andava “ripulita” da numerosissimi mutilati di guerra, che vivevano chiedendo l’elemosina per le strade della città: sono stati prelevati a turno ed esiliati nei lager appositamente creati sulle isole dei mari del nord di Russia.

Nel 1959 (da 3 al 17 agosto) a Mosca si tiene il primo Festival Internazionale del Cinema, che diventò una manifestazione regolare a scadenza biennale.

Sono diventati regolari (1 o 2 volte all’anno) anche le mostre d’arte figurativa, che davano spazio alle opere degli artisti – membri della “Unione degli artisti dell’URSS”.

Nel 1955 nel Museo delle Belle Arti “Pushkin” – maggior museo della capitale dedicato all’arte mondiale – è stata definitivamente smontata la mostra permanente “Regali dei lavoratori di tutto il mondo al compagno Stalin in occasione del suo 70-mo anniversario”, che era in piedi dal 1949. A causa di questa mostra sono stati chiusi nei depositi le opere del Rinascimento, i quadri di Rubens e di Rembrandt, ed altro ancora. Ora l’esposizione museale fu ripristinata, e non solo: sono state esposte pure le opere di E.Manet, Renoir, Sezanne, Gaugin, Rodin ed altri, che dopo la rivoluzione del 1917 erano state sequestrate ai grandi collezionisti russi. Le opere della fine del XIX – inizio del XX secolo sono sembrate ai sovietici nel 1955 i capolavori del futuro! La gran parte di questi quadri “non-figurativi” fu presto rispedita nei depositi, come tutte le opere cubiste di Picasso esposte, sempre a Mosca, alla mostra a lui dedicata allestita nel 1956.

Nel novembre del 1962, dietro un permesso speciale del Comitato Centrale del PCUS, fu pubblicato il romanzo di uno sconosciuto ex-prigioniero politico Alexandre Soljenitzyn “Una giornata di Ivan Denisovič” che raccontava un giorno della vita del lager staliniano. Però presto sia lo scrittore che la sua opera sono stati condannati ufficialmente: il processo della “destalinizzazione” cominciava a sfuggire al controllo, e a Novocherkassk, nello stesso 1962 ebbe luogo una grande manifestazione degli operai, che fu fucilata dall’esercito dietro l’ordine preciso da Mosca. Da lì cominciano le famose campagne di critica e di diffamazione di singoli scrittori e uomini di cultura, e finisce definitivamente il cosiddetto “disgelo krusčeviano”, durante il quale – vogliamo ricordarlo – solo di chiese ortodosse ne sono state chiuse al culto o distrutte quasi 15 mila.

L”URSS e il resto del mondo. «L’URSS scopre il resto del mondo, inizia il turismo internazionale!» proclamò Krusčev in uno dei suoi discorsi. Si trattava, ovviamente, solo dei viaggi turistici regolari degli stranieri nell’URSS: sono stati elaborati degli itinerari in pochissime città, sotto la stretta sorveglianza di “operatori del turismo” : non c’era alcuna possibilità di staccarsi dal gruppo, di avvicinare la gente o di visitare un negozio, perché sono stati creati appositamente dei “tunnel turistici”, con alberghi, ristoranti e negozi solo per gli stranieri.

I sovietici potevano viaggiare sul territorio dell’URSS, ma non era un’impresa facile: fuori dalle poche possibilità del turismo interno organizzato, non ci si poteva trovare né i biglietti per treni e aerei, né posti per dormire e mangiare. C’erano pure dei viaggi all’estero organizzati – pochi, pochissimi e costosissimi – distribuiti presso i “posti di lavoro”, o le organizzazioni tipo “Unione degli artisti dell’URSS”, tra i lavoratori più meritevoli. Prima di essere ammessi nel gruppo turistico del genere bisognava raccogliere delle raccomandazioni ufficiali che andavano esaminate a tre diversi livelli, e poi ogni candidatura doveva essere approvata dall’apposita commissione, prima regionale e poi municipale. Il turista sovietico non poteva avere soldi esteri, e il primo giorno di viaggio il “capo gruppo” consegnava a ciascuno la somma in valuta locale equivalente a $10 USA (il rublo dell’URSS non era convertibile, e ai turisti comuni sovietici provvedeva la banca dell’URSS – ma solo in questa misura, perché la “valuta straniera” era pregiata, e serviva alla patria!). Marito e moglie non potevano recarsi all’estero insieme e i sovietici privi di famiglia non lo potevano nemmeno sperare: non lasciavano nessun “ostaggio” in patria a garantire il loro ritorno.

Per dimostrare lo sviluppo del turismo sovietico Krusčev fece un viaggio “privato” nel 1959: andò negli USA con una delegazione tanto numerosa da riempire un grande transatlantico sovietico. La visita durò dal 15 al 27 settembre, e al suo ritorno su tutti i “posti di lavoro” furono organizzati i «dibattiti dedicati ai risultati della missione storica del compagno N.S. Krusčev negli Stati Uniti», come scriveva la “Pravda.

Mentre Krusčev eseguiva la sua missione storica negli USA, a Mosca ebbe luogo “The American Exhibition”: i moscoviti erano shockati dalla molteplicità dei colori, le donne guardavano con gli occhi spalancati i mobili e i vestiti e gli uomini le automobili.

Per fortuna, dalla metà degli anni 1960 iniziarono a trasmettere in TV i documentari dedicati ai paesi del mondo – le trasmissioni si chiamavano “Viaggi cinematografici”. Ancora una barzelletta: «”Voglio di nuovo andare a Parigi!” – “Tu saresti stato a Parigi!?!” – “Ma no! E’ che lo volevo anche l’anno scorso”».

La vita privata. La vita sessuale era molto problematica per i sovietici a causa delle condizioni abitative (nella stessa stanza vivevano insieme anche tre generazioni) ed era sempre accompagnata dal terrore della gravidanza indesiderata. Gli anticoncezionali erano introvabili, inoltre di pessima qualità. Gli aborti erano proibiti dalla legge. Naturalmente, si praticavano largamente quelli clandestini, che costarono la vita a molte, moltissime giovani donne.[9] Altra via d’uscita era quella di uccidere il neonato: i corpicini venivano buttati di notte nelle fosse dei numerosi all’epoca cantieri edili. Questa grave piaga della vita sociale è riflessa nei numerosi esempi del folclore popolare.

Il divorzio non era proibito dalla legge, ma era sempre pubblicamente condannato, come un fatto immorale: basta sapere che i giornali locali pubblicavano ogni giorno elenchi delle persone che hanno presentato la richiesta del divorzio.

Orgoglio nazionale. Tutti i sovietici erano sinceramente orgogliosi per i successi nell’esplorazione dello spazio (il primo satellite artificiale nell’ottobre del 1957, il secondo nel novembre con la cagnetta Lajka, fino al volo di Gagarin nell’aprile del 1961), della scienza e dell’arte nazionale. L’aspetto statale-nazionale faceva parte della vita privata (come e in che misura è dimostrato brillantemente da A.Tarkovskij nel film “Lo specchio”).

Nell’epoca di Stalin “vivere” per un sovietico significava soltanto di non essere ancora morto.

I sovietici dell’epoca di Khrusčev (l’epoca del “socialismo reale”, di condizione storica non bellica e senza il regime del terrore politico) non volevano più sentire che devono sacrificare le proprie vite per costruire “il futuro luminoso” per i posteri (soprattutto, perché allevati come atei, che non credono nell’immortalità dell’anima, ma sono solo certi della mortalità del proprio corpo fisico). Stanchi di sentire che “la vita diventa sempre più bella” rendendosi conto che diventa sempre più difficile negli aspetti più semplici e fondamentali, erano quotidianamente sommersi dalla lotta per la sopravvivenza, che non lasciava molto spazio per i concetti astratti. Il mondo fuori dall’URSS era inesistente quanto lo erano l’antica Grecia o Roma. L’URSS creava l’immobilità di spazio e di tempo e annientava la multidimensionalità di storia. Un fatto: i sovietici autorizzati ad avere i contatti con gli stranieri in visita ricevevano le istruzioni di comportamento. Durante la visita alla piazza Rossa alla domanda che gli stranieri avrebbero potuto rivolgere alla guida turistica «E anche Krusčev sarà sepolto in questo Mausoleo?» questa doveva rispondere: «Nikita Sergeevi č vivrà così a lungo, che non abbiamo bisogno di porci delle domande del genere».

Il panorama della vita quotidiana sovietica di quell’epoca, quando il regime non poteva più ricorrere alle scuse della situazione bellica e non poteva applicare il terrore politico, è anche la dimostrazione che un regime socialista non è in grado nemmeno di provvedere autonomamente ai bisogni fondamentali della vita del paese. L’epoca di Krusčev era l’inizio della fine dell’Unione Sovietica.

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[2] Il quotidiano “Pravda”, presente in ogni casa, veniva tagliato in rettangoli più o meno uguali da usare in gabinetto: la carta igienica è apparsa nell’URSS solo alla fine degli anni 1960. Una barzelletta popolare dell’epoca: «Il Direttore chiede ad un lavoratore: “Lei ha già rinnovato il suo abbonamento alla “Pravda”?” – “No, perché ora ho il televisore e seguo così tutte le notizie.” – “E cosa userà nel gabinetto? Una antenna forse?”».

[3] Per non aver rimproveri di traduzione incomprensibile, cito anche l’originale: «Трудящиеся Советского Союза! Крепите ваши ряды борцов за мир!»

[4] In originale: «неуклонный рост благосостояния советских трудящихся».

[5] L’attore francese Gérard Philipe ne fu talmente colpito quando visitò Mosca, che, tornato a Parigi, allestì una curiosa mostra: espose i capi di biancheria intima da donna comprati nei negozi sovietici.

[6] E quale sarebbe la differenza tra le proprietà “statali” e quelle “pubbliche” dove tutto appartiene allo Stato?

[7] Ai “farzovsčik” (fautori di questo settore del mercato nero) attingevano regolarmente non solo i cittadini comuni, ma, per esempio, anche i cineasti, che dovevano imitare, sul suolo sovietico e con i mezzi a disposizione, la “vita occidentale”.

[8] Da notare, che il “furbo” c’è stato uno solo tra gli altri.

[9] Una di loro era, per esempio, la madre di Roman Abramovič, ora famoso miliardario: lui aveva un anno di età, e sua madre non poteva avere un’altro figlio: doveva tornare al lavoro.



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