di Padre Giovanni Cavalcoli
Forse mai come oggi tra cristiani si è parlato della carità e di tutte quelle virtù che le sono annesse: spirito comunitario, operosità sociale, solidarietà, attenzione ai poveri, rispetto per il diverso, apertura all’altro, liberazione dalla miseria, attitudine al dialogo, tolleranza, misericordia, perdono.
Ma in realtà, se andiamo a fare un’attenta verifica sulle idee e i sentimenti che ispirano tutte quelle belle espressioni, ci accorgeremo che nel contempo forse mai come oggi si è tanto equivocato su ciò che è veramente la carità nel senso cristiano della parola.
Non dico certo che il cristianesimo del passato brillasse sempre nel campo della carità. I suoi limiti soprattutto in questi ultimi decenni ci sono stati ripetuti si potrebbe dire fino alla noia: concezione intimistica, individualistica e pietistica della carità, insensibilità per i problemi sociali, facilità al ricorso alla severità da parte dell’autorità, spirito bellicoso - oggi diremmo “fondamentalista” - da una parte, ma anche, dall’altra, timidezza da parte del popolo nei confronti dei potenti, assenza di interventi della pubblica autorità e dello Stato, giustificazione delle sperequazioni sociali ed acquiescenza ad esse quasi fossero cosa naturale. Si è abusato dell’espressione di Gesù: “I poveri li avrete sempre tra di voi”.
Nel delineare questo fosco quadro però facilmente anche si esagera, soprattutto nell’accusare
Invece un attento esame storico ci porterebbe a scoprire come spesso nell’epoca moderna il concetto della carità si è irragionevolmente ristretto, secolarizzato e materializzato, fino alla banale espressione corrente per la quale “fare la carità” vorrebbe dire dare un euro a un mendicante o forse meglio ad un accattone sfaccendato per la strada.
Il concetto di carità si è ristretto. Ci si è dimenticati che, secondo il comando di Cristo stesso, i precetti della carità sono due; e il primo è la carità verso Dio, che si esprime nel desiderio di vedere il suo volto, nel culto divino e nella volontà di obbedire ai suoi comandi. Solo il secondo comandamento è la carità fraterna, mentre comunemente nei nostri ambienti cattolici, quando si parla di “carità” ci si limita a pensare solo alla carità fraterna.
In secondo luogo il senso della carità ha subìto un’ulteriore restrizione. Si parla spesso di attenzione ai poveri. E va bene. Ma poi che cosa s’intende immancabilmente per “poveri”? Poveri in senso materiale; dimenticando che la prima “povertà”, la prima miseria alla quale occorre rimediare, è la miseria dei vizi e dei peccati, l’ignoranza e l’errore circa
Inoltre si è diffusa una concezione secolarizzata della carità, priva di spirito e di finalità soprannaturali, una concezione che ha dimenticato che la vera carità suppone ed afferma il primato dello spirituale e comporta quindi il desiderio fattivo per sé e per gli altri della vita eterna e dell’eterna salvezza.
A ciò si connette la confusione tra carità sacerdotale e carità laicale e si pretende di ridurre quella a questa. Non mancano sacerdoti, i quali, confusi da questi errori, disprezzano il valore della vera carità sacerdotale e si sentono in dovere di dedicarsi quasi a tempo pieno ad attività (possibilmente remunerative), che in realtà spetterebbero ai laici, agli operatori sociali, ai sindacalisti, agli psicologi, agli uomini d’affari o ai politici. Oppure vi sono persone ancora più scriteriate, addirittura “teologi”, i quali vorrebbero far fare ai laici ciò che spetta al sacerdote, come per esempio la conduzione della Chiesa in barba alla Gerarchia (vedi l’iglesia popular o “Chiesa dal basso” della teologia della liberazione) oppure celebrar Messa[1]. Quanto alla “confessione”, basterebbe lo psicanalista, oppure, dato che tutti siamo in grazia e perdonati, come sostiene Rahner, la confessione è perfettamente inutile.
Nessuno nega l’importanza anzi la necessità per la salvezza di una generosa carità fraterna, anche in campo materiale, da parte del sacerdote. Tuttavia è urgente che i laici e gli stessi sacerdoti recuperino la specificità e l’insostituibile preziosità della carità sacerdotale. Tutti dobbiamo in vari modi e misure tornare a capire che la prima carità fraterna è, come diva S.Agostino, la caritas veritatis, il servizio della verità, la comunicazione della Parola di Dio e la liberazione delle anime dalla schiavitù o dall’inganno dell’errore in fatto di Parola di Dio.
Tutti dobbiamo in vari modi e misure tornare a renderci conto che il servizio fraterno più prezioso che un sacerdote può fare è quello di celebrar Messa, confessare e guidare la anime, proprio come diceva appunto un pio e santo Sacerdote, il Servo di Dio Don Didaco Bessi (1856-1919), fondatore della Congregazione delle Suore Domenicane di Iolo, in provincia di Prato: “Non vi ha cosa più sublime e più eroica nell’ordine delle cristiane virtù, quanto lo zelo della salute e perfezione del prossimo. Poiché questo zelo secondo l’Angelico Dottore S.Tommaso è un’espressione dell’Amor Divino; egli è ciò che ha di più puro e di più squisito
Padre Tomas non ignorava certamente il dovere che il sacerdote ha, secondo le sue forze, di aiutare anche materialmente il prossimo bisognoso. Tuttavia, secondo l’ideale domenicano del contemplata aliis tradere, “comunicare al prossimo il frutto della contemplazione”, egli sapeva bene che, come dice l’Aquinate, “la più preziosa opera di misericordia che uno può fare è condurre il fratello dalle tenebre dell’errore alla luce della verità”, svolgere, come diceva S.Caterina da Siena, “l’ufficio del Verbo”, che è venuto nel mondo per illuminare l’umanità con la verità divina e liberarla dalle tenebre dell’errore e del peccato.
A chiusura dell’Anno Sacerdotale, l’11 giugno scorso, nell’omelia della Messa del Sacratissimo Cuore di Gesù, illustrando quella che dev’essere la carità sacerdotale, il Papa, ha commentato il Salmo 23, che esprime la fiducia del Salmista in Dio come buon pastore che, col suo “bastone” e il suo “vincastro” gli danno sicurezza.
Il Papa osserva che “anche
Quanto al campo della carità sociale e dell’applicazione del Vangelo nella politica, Padre Tomas non volle rubare il loro insostituibile ruolo ai laici, ma questo non gli impedì, come era suo dovere di sacerdote e maestro della fede, di farsi per essi ispiratore di giustizia e di onestà, e di offrire al mondo cattolico laico i lumi che venivano dalla ricca dottrina sociale della Chiesa, aperto al dialogo anche con i non-credenti.
Al termine di questo Anno Sacerdotale, il modo col quale Padre Tomas ha concepito ed attuato la carità fraterna appare quindi come stimolo di riorientamento secondo le autentiche esigenze del Vangelo oggi ricordateci dal Papa, sia per i sacerdoti che per i laici, per un esercizio della carità che non confonda i ruoli, ma li associ strettamente nella loro reciproca complementarità per un efficace contributo al bene comune della Chiesa e dell’umanità di oggi.
note
[1] Recentemente ciò si è proposto in Olanda per “uomini, donne ed omosessuali”.
[2] Da Don Didaco Bessi. Discorsi a cura del Centro Studi “Don Didaco Bessi”, Iolo (Prato), vol.”, Prato 2007, p.329.
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TOMAS TYN E LA TRADIZIONE CATTOLICA
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